Riflessioni di un paese: tradizione, memoria e scelte di vita
Storie d’altri tempi
Di Francesco Cesare Strangio
«Non lo farei per me, ma per la futura sposa» rispose prontamente Marco.
«Quale cretina va cercando lavoro quando si può mantenere il lusso di restare a casa e fare la gran signora?» rispose donna Angelina.
Marco rimase in religioso silenzio mentre i pensieri facevano la spola nella sua testa. Effettivamente comare Angelina fece un ragionamento d’indiscutibile saggezza.
«Lascia perdere… Ringraziando la divina provvidenza tu non hai nessuna necessità di metterti dietro a un bancone di un bar a servire la gente fino a tarda sera. Ascolta, bada al tuo mestiere e il bar lascialo ad altri che non hanno né arte né parte.»
Finì così il consiglio di comare Angelina.
Marco annuì a lungo. Si era reso conto di aver avuto un momento di smarrimento.
Come era solito fare, s’inchinò e baciò la mano alla sua madrina; uscì e andò difilato al cantiere, dove aveva lasciato gli operai a lavorare.
Aveva invitato Mezza Cazzuola a passare la serata di sabato a casa sua. Marco era preoccupato, non voleva fare brutta figura, e fu così che decise di portare la coppia all’unica trattoria che c’era in paese.
Il locale era situato nel vecchio centro storico e si poteva raggiungere solo in motocicletta o a piedi: le strade strette impedivano il transito alle auto.
La viabilità del vecchio borgo era articolata da strette viuzze delimitate da case a tre piani che, per via della poca distanza tra le pareti, sembravano alte fin quasi a lambire le nuvole. I muri delle case, fatti di pietre una sopra l’altra, erano ricoperti d’intonaco, in più punti mancanti da sembrare piccole chiazze di neve staccatasi dalle pareti di roccia.
In una delle tante piazzuole, vi era un palazzotto che dominava sugli altri, non per grandezza, ma per il colore rosso intenso. Al piano terra il palazzotto ospitava la trattoria di Rino Lupus; sia Marco che Salvatore conoscevano bene il locale, in quanto durante il periodo di apprendistato avevano lavorato per ristrutturarlo.
A quel tempo, quando ristrutturarono il fabbricato, i due amici portavano in loro la spensieratezza dell’adolescenza. Quanti ricordi in quelle strette vie del borgo, quando passavano con il motocarro Guzzi a pochi centimetri dai muri.
Mastro Filippo non si stancava mai di raccomandar loro di essere precisi nell’eseguire i lavori, poiché odiava che altri giudicassero negativamente la propria impresa.
In quelle occasioni Rocco si scaldava a tal punto che con veemenza sbraitava: «Se qualcuno si permettesse di esprimere giudizi negativi sul nostro lavoro, sarei costretto a rompergli il grugno.»
Quel borgo era una gigantesca spugna satura di storia risalente al tredicesimo secolo.
Il giorno seguente, in coincidenza dell’ultimazione dei lavori, il sindaco, in compagnia di due assessori, si recò sul posto e prese visione dei lavori; persino don Angelo, nell’omelia della messa della domenica, aveva elogiato la professionalità della ditta di mastro Filippo.
Tutti quei ricordi erano lì per lì prossimi a sgretolarsi fino essere confusi con i sogni.
Rino Lupis si era ritirato in pensione e di rado si faceva vedere nella trattoria che aveva lasciato al figlio Sebastiano, che fin dalla sua più tenera età, si prodigava ad aiutare i genitori sbucciando patate e lavando piatti.
I tre trascorsero la serata a mangiare stoccafisso, che era il piatto forte del locale.
La donna di Mezza Cazzuola era felice, non si aspettava un mondo di una così straordinaria bellezza, stracolmo di quell’umanità che non trova spazio nell’Italia settentrionale. La ragazza era così emozionata che le venne spontaneo manifestare il desiderio di trasferirsi in quel paese.
Per Mezza Cazzuola iniziò il conto alla rovescia, odiava Como e la Svizzera.
Durante tutto il periodo lavorativo, Mezza aveva messo da parte quel tanto che gli avrebbe permesso di ristrutturare casa, sposarsi e vivere discretamente per qualche anno.
Lasciata la trattoria, fecero ritorno alla villa di Marco, dove continuarono a chiacchierare.
Nel bel mezzo dei verdi e rigogliosi campi dei ragionamenti, Mezza disse che il tempo era ormai maturo per fare rientro a casa.
Marco, in silenzio, lo ascoltava con vivo interesse. Quel suo modo di comportarsi, Mezza lo conosceva bene: era certo che stesse rimuginando qualcosa d’importante.
Quando Mezza finì di spaziare nell’universo dei ragionamenti, i tre tacquero; si sentiva soltanto il canto soffuso di una canzone di Mina.
Tra i vecchi quadri attaccati alle pareti, vi era un dipinto di un paesaggio immerso nella penombra; nella parte bassa vi era la scritta “Omnia mortalia peritura sunt”. Lo sguardo della donna lasciava intuire che non aveva capito cosa significasse quella scritta e perché il quadro era stato messo nella parete principale del salone.
Marco, avvedutosi dell’insistenza della donna nell’osservare il quadro in cui era riportata la scritta che il nonno non perdeva occasione di citare, disse: «Noto che hai posto con insistenza i tuoi occhi sul quadro con la scritta “Omnia mortalia peritura sunt”. Capisci quello che c’è scritto?»