L’immenso parcheggio sotterraneo del centro commerciale Bonaire, un’area capace di ospitare oltre 5.000 automobili, è stato travolto da una piena alluvionale che ha colpito la zona di Aldaya, alla periferia di Valencia. In pochi attimi, l’acqua si è riversata con una furia devastante, riempiendo ogni angolo di quel vasto spazio sotterraneo. Mentre l’acqua saliva, le persone all’interno del centro commerciale, ignare del pericolo imminente, si sono precipitate verso le loro auto nel tentativo di mettersi in salvo.
Quel parcheggio, che in tempi normali rappresentava una via di fuga sicura, si è trasformato in una trappola letale. Le uscite, i corridoi, ogni via di accesso sono stati rapidamente sommersi, senza lasciare scampo a chi tentava di raggiungere il proprio veicolo o di guadagnare l’uscita. Le testimonianze dei soccorritori sono angoscianti: i sommozzatori parlano di un “cimitero sommerso”, un luogo in cui il numero delle vittime è ancora oggi impossibile da stimare con precisione. La scena che si è presentata ai loro occhi è tragica e surreale, un mare scuro di automobili sommerse in cui ancora si cercano, ormai invano, i superstiti.
Non posso nascondere il mio sgomento dinanzi a una tragedia di tale portata. La scena descritta dai sommozzatori, trovatisi all’interno di un bacino in cui l’acqua ha inghiottito vite umane con una violenza spaventosa, è un’immagine che colpisce con la forza di uno schiaffo e che lascia addosso una sensazione di impotenza e rabbia. I volti dei famigliari, persi nel dolore e nella disperazione, sono i volti di un’umanità sconvolta, che cerca risposte e sollievo mentre intorno tutto sembra crollare.
Eppure, sebbene il dolore sia atroce e il lutto sia immenso, resta un’amarezza che brucia ancora più profonda: quella di trovarsi di fronte a una catastrofe che avrebbe potuto essere evitata, o quantomeno mitigata. Non è la prima volta, purtroppo, che eventi del genere ci raccontano una storia di disorganizzazione, di ritardi nelle evacuazioni, di mancanza di risposte tempestive. E non è la prima volta che assistiamo a reazioni che variano in base a quanto vicino o lontano dal nostro mondo percepiamo il dramma. In passato, quando le inondazioni colpivano terre lontane, il cordoglio spesso si limitava a brevi cenni di empatia, per poi scivolare nel silenzio di una realtà che ritenevamo distante, quasi come se la sofferenza non avesse la stessa intensità oltre confine.
Ma oggi, con le conseguenze del cambiamento climatico che si riversano sulle nostre terre, con eventi catastrofici che colpiscono anche i luoghi più familiari, all’improvviso sembra scattare una presa di coscienza collettiva. Un’urgenza di agire che, però, appare quasi beffarda, una corsa tardiva in un mondo in cui è troppo tardi per molte delle vite perse. Quel parcheggio trasformato in cimitero, quegli sfoghi di disperazione delle persone, le contestazioni rabbiose verso le autorità, sono il risultato di anni di negazione, di una cocciuta resistenza ad ammettere che la natura sta presentando un conto pesante, per un debito che abbiamo accumulato con irresponsabilità e noncuranza.
È assurdo pensare che ci si accorga del rischio solo quando ci colpisce da vicino. Le parole di conforto, le promesse di solidarietà delle istituzioni suonano vuote in un contesto che avrebbe richiesto prevenzione, investimenti, misure concrete già molto tempo fa. Le lacrime del re Felipe e della regina Letizia, i tentativi di Pedro Sanchez di mostrare vicinanza al popolo, non possono colmare il vuoto di vite che sono state spezzate per sempre. Non possono cancellare le responsabilità politiche e sociali che hanno contribuito a questa tragedia, e che continueranno a farlo finché si risponderà all’emergenza solo con la reazione e mai con la prevenzione.
Il cambiamento climatico è qui, ora. Non è una questione lontana, non è un problema relegato ai margini del mondo. La natura non risparmia nessuno e richiede un impegno che superi i confini, le ideologie e le logiche di convenienza. E noi, mentre piangiamo queste vittime, dovremmo riflettere profondamente: quanto sangue dovrà essere versato ancora prima che il dolore altrui non venga trattato come meno importante solo perché avviene altrove? Quanto dovremo ancora attendere per capire che una crisi globale richiede un’azione globale, e non la compassione a intermittenza riservata solo quando la tragedia si svolge nel nostro cortile?