Attualità

Quel campanello della legalità che suona sempre più timidamente

Pensieri, parole, opere… e opinioni

In Italia, il coraggio di svolgere il proprio dovere o di denunciare pratiche irregolari può trasformarsi in un incubo fatto di intimidazioni, minacce e isolamento. Nell’ultima settimana, due episodi di aggressioni verbali e di violenza mirata contro figure che scelgono di agire nel rispetto della legge hanno evidenziato un clima sempre più teso e polarizzato, che colpisce chiunque provi a portare avanti principi di legalità e trasparenza e che dimostrano quale deriva pericolosa stia prendendo questo Paese.
Il primo caso sul quale mi pare opportuno soffermarci è quello di Silvia Albano, giudice del Tribunale di Roma, che ha ricevuto centinaia di minacce di morte dopo aver emesso, insieme a cinque colleghi, una sentenza che ha ordinato il ritorno in Italia di alcuni migranti trattenuti in Albania. Frasi come “Spero che ti sparino presto”, “Ti auguro un vestito di piombo” e “Festeggeremo la tua morte” sono solo alcuni dei messaggi intimidatori arrivati alla giudice, messaggi che hanno assunto toni sempre più violenti e che, di fatto, mettono a rischio la sua sicurezza.
Come spesso accade alle nostre latitudini, tuttavia, la gravità di questa vicenda non si limita alle intimidazioni: il dibattito pubblico, alimentato da dichiarazioni controverse, sembra infatti legittimare in maniera indiretta queste minacce. In merito alla vicenda in questione, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha infatti dichiarato pubblicamente di ritenere che “ci sia da parte di alcuni giudici un sostanziale menefreghismo rispetto alla volontà popolare”, parole che mettono in discussione il ruolo della magistratura e che, instillando il dubbio che l’obbligo di applicare le leggi non sia sufficiente a proteggere chi si limita a svolgere il proprio lavoro, armano la tastiera (se non addirittura la mano) degli stolti. Evenienza per arginare la quale ben ha fatto la Albano a decidere di denunciare ogni singola minaccia ricevuta, nella speranza che la giustizia sappia proteggere chi è chiamato a difendere lo Stato di diritto.
Un’altra dimostrazione di coraggio civile sempre più raro nel nostro Paese è quella proveniente da Roberto Mantovani, noto come Red Sox, un tassista che da anni conduce una campagna per la legalità e la trasparenza nel suo settore. Negli scorsi giorni, Mantovani è diventato bersaglio di minacce e atti di vandalismo per aver reso pubblici sui social i suoi incassi quotidiani, dimostrando che guadagnare bene rispettando le regole, come l’obbligo di accettare pagamenti con POS, è possibile anche per la bistrattata categoria dei tassinari (come dicono in quel di Roma).
Per le sue denunce e per il suo atteggiamento trasparente, Mantovani ha subito numerose intimidazioni. Prima le minacce, poi i danni alla sua auto (gomme bucate e una serie di insulti e simboli fascisti incisi sulla carrozzeria, accompagnati dalle parole “infame” e “merda”, da croci celtiche e da un sempreverde pene stilizzato tracciato simbolicamente sul logo di un onlus a favore delle donne vittime di violenza che il tassista sostiene). La battaglia per la legalità di Mantovani e il suo rispetto delle norme ha causato anche la sua espulsione dalla cooperativa di taxi a cui era affiliato, una misura che dimostra quanto possa essere difficile per chiunque, all’interno di una categoria protetta, portare avanti una lotta per la trasparenza e di quanto, aggiungo, il clientelismo sia ancora un modus vivendi pienamente accettato in tutto lo Stivale.
La cosa che maggiormente mi preoccupa è che gli episodi che hanno coinvolto Albano e Mantovani non sono isolati, ma si inseriscono in un quadro più ampio in cui chi denuncia o si oppone a certi meccanismi di potere si ritrova sempre più frequentemente isolato o, peggio ancora, sotto attacco. In entrambi i casi, infatti, si evidenzia una reazione sproporzionata e violenta contro chi mette in luce pratiche discutibili o applica la legge in modo imparziale. Il messaggio è chiaro: chiunque osi fare chiarezza su zone d’ombra o chiunque sia percepito come un ostacolo all’impunità, rischia di essere isolato e perseguitato e il fatto che il Governo non condanni pubblicamente questo tipo di episodi induce inevitabilmente a intuire quale sia la deriva, così simile a quella degli anni ’20 del secolo scorso, a cui stiamo andando incontro.
In un Paese che dovrebbe sostenere chi combatte per la legalità, episodi come questi dovrebbero essere in effetti un campanello d’allarme che, tuttavia, suona sempre più timidamente e la mancanza di una reazione univoca da parte delle istituzioni e il clima di aggressività alimentato da alcuni esponenti politici che finiscono con il delegittimare la figura di chi si espone in difesa della trasparenza, prima o poi, questo campanello, non lo faranno suonare più.

Jacopo Giuca

Nato a Novara in una buia e tempestosa notte del giugno del 1989, ha trascorso la sua infanzia in Piemonte sentendo di dover fare ritorno al meridione dei suoi avi. Laureatosi in filosofia e comunicazione, ha trovato l’occasione di lasciarsi il nord alle spalle quando ha conosciuto la sua compagna, di Locri, alla volta del quale sono partiti in una altra notte buia e tempestosa, questa volta di novembre, nel 2014. Qui ha declinato la sua preparazione nella carriera giornalistica ed è sempre qui che sogna di trascorrere la vecchiaia scrivendo libri al cospetto del mare.

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