Costume e SocietàLetteratura

L’amore proibito e la tragedia di Euridice: il processo di Tirso davanti a Zaleuco

La Repubblica dei Locresi di Epizefiri

Di Giuseppe Pellegrino

«Non ricordo con precisione il giorno. Ricordo il fatto, e come potrei dimenticarlo? Euridice nell’intimità mi parlava sempre di Tirso. Del fatto che alla festa della Sacra Prostituzione, quando era appena diventata donna, era stata sua. Che da allora non aveva voluto nessun altro uomo, neppure Ilone, che paziente aspettava – incominciò mesta la donna. – Poi continuò, un giorno Ilone partì per Siracusa. Almeno, così disse il pròsseno. Tirso venne chiedendo di Ilone, ma sospetto che sapesse della sua partenza. Euridice scese; disse della partenza del Siracusano, ma Tirso non se ne andava. Euridice aveva paura, ma della presenza dell’uomo era contenta. Parlava e rideva. Poi all’improvviso Tirso la prese e l’abbracciò. Euridice si mise a gridare. Io mi avvicinai alla mia padrona. Tirso mi colpì con un calcio al ventre così violento che svenni. Quando mi ripresi, vidi la mia padrona piangente e sanguinante. Era bastato poco perché fossero consumate nozze violente. Tirso tornò ed Euridice non seppe più dire di no. Tornava Tirso ogni volta che Ilone non era a casa. Ma negli ultimi tempi il Siracusano a casa veniva raramente. Un giorno, Euridice scoprì di essere incita. Spaventata lo disse a Tirso. Ma Tirso, mi disse la mia padrona, le diceva di non preoccuparsi, che tanto Ilone non se ne sarebbe mai accorto. La mia padrona non capiva. Eppure aveva detto a Tirso che Ilone non l’aveva mai toccata. Una sera Euridice tornò lieta. Era stata ai riti orfici, che si tengono nella sua casa. Era contenta perché, diceva, Orfeo e la sua sposa le avevano mandato la soluzione dei suoi guai. Non capii fino a quando non mi mandò a chiamare Strabone, il medico greco. Il medico frequentava i riti ed Euridice gli disse che voleva disfarsi del frutto non gradito. Strabone disse alla mia padrona che era pericoloso e che il suo cuore non poteva esporsi al pericolo di due morti. Euridice disse a Strabone che non le lasciava altra via che la morte e Strabone tolse dal ventre della mia padrona il frutto del peccato. Ma qualcosa non andò per il suo verso. Piano piano, la mia padrona abbandonò la luce terrena, senza un lamento, senza una recriminazione. Strabone seguì tutto e alla sua morte si disperò.»
Così chiuse il suo racconto la serva. Ora voleva solo essere lasciata libera per tornare a casa. Zaleuco capì e con compassione disse:
«Puoi tornare alla casa della tua padrona, Pelope» e Pelope inizio il suo breve ritorno alla casa dei suoi ricordi.
E fu il turno del medico greco. Strabone ripetè la storia così come la aveva raccontata a Zaleuco. Disse di quando conobbe Euridice ai riti Orfici. Raccontò di quando Pelope lo chiamò da Euridice, e della richiesta di abortire. Ricordò come alla donna rappresentò il pericolo perché troppo avanti nella gravidanza, e come Euridice minacciò il suicidio se non fosse stato attuato il rimedio. Descrisse lo svuotamento dell’utero e l’uscita del sangue. Pianse all’agonia di Euridice, ma soprattutto alla sua colpa. Gli astanti ascoltavano. Tutti conoscevano il medico greco e la sua meticolosità. Ognuno sapeva della sua onestà, perché non si curava solo dei ricchi, ma prestava la sua opera a chi ne aveva bisogno. Sapevano tutti che Strabone era stato un agitatore, un soldato, un lottatore. Vederlo piangere come un bambino a Locri, dove non si piangevano neppure i morti, era una sensazione che i locresi non sapevano descrivere, perché mai provata. Di certo, la sua confessione, più di quella della umile Pelope fece propendere la bilancia verso il basso.
«Ora, cosa mi dici in tua difesa,Tirso – fece Zaleuco, implacabile. – L’accusa è frutto della mia ostinazione. O è la tua ostinazione che ti impedisce di ammettere la tua colpa?» concluse il Magistrato.
«Tu non mi vedrai cieco Zaleuco. Tu non mi ridurrai a uno zimbello che i bambini per strada prendono in giro, colpiscono con le pietre, e lo fanno inciampare per ridere, mentre cantano i versi delle tue leggi – disse con veemenza e con sorpresa di tutti Tirso. – Tirso non è scappato davanti al nemico e non scapperà davanti a un servo che oggi comanda Locri. La tua ostinazione, la tua voglia di primeggiare, considerandoti il migliore, sì da imporre a tutti le tue leggi e i tuoi giudizi inflessibili, sono la mia colpa. La mia vera colpa è quella di sognare la grandezza di Locri, che tu vuoi sempre piccola per meglio controllarla – come un fiume a voce alta e declamando Tirso guadagnò l’Agorà. – Sì Zaleuco, questa è la mia colpa. Tu dici di avere appreso da Licurgo, lo Spartano, i principi della tua legislazione e che Minerva in persona ha dettato le tue leggi. Ora ti comporti come se Licurgo fosse uno dei perieci, e non Il Fautore di Luce e Minerva una Dea tollerante e debole. Perciò la mia sorte è affidata alla tuchè, al caso, e non alla giustizia che vuole i migliori primeggiare.»
Il fiume in piena continuò e nessuno osò fermarlo, neppure Zaleuco. La sortita del giovane era abile e lo aveva preso di sorpresa. La difesa era ad effetto, ma di nessuna utilità per la colpa commessa. Zaleuco non capiva dove volesse parare il giovane, ma presto ne fu edotto. Il fiume, ormai, aveva rotto gli argini: «Io ho commesso la colpa di amare Euridice. Ho amato una donna che mi amava e che il padre aveva venduto a chi era più ricco.»

Continua…

Redazione

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