Il dilemma di Zaleuco: conservare le leggi o abbracciare il cambiamento?
La Repubblica dei locresi di Epizefiri
Di Giuseppe Pellegrino
Temeva Agesilao il colpo di coda, che poteva essere mortale, dell’animale ferito grave, ma capace di grande reazione. Temeva, soprattutto, l’oplita di non essere all’altezza del compito. Fino a quel momento gli incarichi ricevuti erano ben definiti. Ora, seppure Zaleuco non ne avesse accennato, capiva che vi era la possibilità di una azione, o forse di più azioni, a largo raggio. Presidiare Locri per l’ordine pubblico era una cosa. Fare questo e dover provvedere alla difesa di Locri esorbitava dalla sue forze. Zaleuco aveva escluso un attacco da parte di Aristarco, e le sue argomentazioni avevano una logica. Ma Tirso poteva avere la paga richiesta da Aristarco, poiché del tesoro di Ilone nulla si sapeva. Quattromila opliti non erano molti per Locri, ma un attacco di sorpresa non era facilmente arginabile. Agesilao si era invero cautelato durante il giorno mandando delle staffette vicino al confine con Caulonia. Se vi era movimento l’avrebbero notato. L’indomani la staffetta sarebbe stata di ritorno e avrebbe portato notizie. “Che Minerva, dea protettrice di Zaleuco – pensò l’oplita – vegli su Locri” e si addormentò. Ma era già l’alba.
Zaleuco era di cattivo umore, la mattina. L’occhio bendato tutta la notte lo aveva tormentato. Era solito alzarsi presto, ma quale mattina fece ancora più presto. Imena lo aveva sentito ed era scesa. Da due giorni lo sposo non parlava se non a sillabe. Nulla diceva della sua giornata, non si sfogava, ma Imena non domandava. Come tutte le donne locresi sapeva più di quanto le veniva detto e il tormento del legislatore non le era sfuggito. Come non le era sfuggito la difficoltà della giornata. Locri sapeva della ricomparsa di Tirso e Imena sapeva che Zaleuco avrebbe combattuto anche l’ultima sfida. In cuor suo era certa che lo sposo la avrebbe vinta la sfida, perché il Magistrato era sempre nel giusto. Ma, a volte, le sfide vinte portavano danni più dolorosi della sconfitta. Tirso non era l’ultimo dei locresi, seppure Zaleuco il primo. La donna chiese al marito se voleva mangiare qualcosa, la giornata sarebbe stata lunga. Il Magistrato fece di no con la testa, ma poi pensò anche lui che la giornata sarebbe stata lunga. Bastava la focaccia avanzata la sera, disse a Imena, non fare altro. La donna sedette vicino al fuoco. Ormai i giorni erano caldi e la mattina, certo fresca, ma non vi era necessità del fuoco. Ma il fuoco non serviva solo per riscaldarsi, ma per tutte le faccende di casa. E quello nel cortile esterno era scomodo. Ma quella mattina Imena sentiva freddo. Quella mattina anche Zaleuco sentiva freddo. L’alba aveva schiarito ormai le strade di Locri. Zaleuco aveva inghiottito un poco di focaccia. Occorreva almeno informare i maggiorenti della Consiglio dei Mille. Già la esecuzione di Tissaferne aveva creato malumori. La condanna di Tirso poteva essere un terremoto. Occorreva tutelarsi. Mise il piede fuori dall’uscio, quando Agesilao arrivò. A piedi. Dalla sua faccia, Zaleuco aveva capito che l’oplita aveva passato una notte insonne. Anche il soldato doveva essere lacerato dai dubbi. Tissaferne era un soldataccio che poteva essere sostituito con migliaia di altri Locresi. Tirso era il futuro di Locri. Ma, pensava il Magistrato, un futuro mostruoso che bisognava impedire che arrivasse. Ma il dubbio rimaneva. E se mostruoso fosse il voler conservare uno stato di fatto? E se fosse mostruoso, invece, conservare in eterno Locri e le sue leggi? Se il mostro erano quelle leggi dure, inflessibili, uguali per tutti? Se Tirso aveva ragione? Assoggettare Medma, Metauro e Hipponion era cosa da poco, non per niente i locresi erano emuli degli Spartani. Difficile era mantenere la pace, perché occorreva un esercito di leva. Ma un esercito di leva andava pagato e non con il sistema del baratto, ma con moneta. La moneta significava stravolgere la legislazione. Non era il più ricco chi aveva più terra, ma chi aveva più moneta. Vietare la possibilità di vendere la terra era inutile. Vietare la intermediazione nella vendita delle merci non aveva senso. Il commercio sarebbe stato il modo per arricchirsi. Lo stratega, o, peggio, il tiranno sarebbe stato chi aveva più coni. Chi poteva permettersi anche di pagare un esercito di mercenari. I cittadini non dovevano più difendere la patria, ma avrebbero delegato ad altri il compito. No Tirso non aveva ragione. Una vita parca, dei costumi severi e una famiglia solida erano la fortuna di Locri. Come diceva il proemio alle leggi locresi: “Tutti i cittadini debbono odorare gli Dei coi patrii riti, che hanno da riguardare come gli ottimi fra tutti”. E poi: “Dopo gli Dei e gli Eroi onorare si debbono i genitori”. Poi stranamente la sua mente passò dal proemio alle leggi e nella mente gli tornò Tirso: “L’adultero avrà cavati gli occhi”, pensò. Poi la sua mente semplificò tutto e come una nenia cantata di seguito ripetè tutto velocemente: “Onora gli Dei; onora il padre e la madre; non desiderare la donna di altri; i magistrati non siano ostinati”. Quest’ultima riflessione non c’entrava con il resto del pensiero. Il Legislatore passava dal Proemio alle leggi e dalle leggi al Proemio. Il suo inconscio gli stava suggerendo il dubbio che il suo contrasto con Tirso fosse solo dettato dal suo orgoglio, che gli imponeva di tutelare la legislazione locrese, che non poteva e non doveva essere cambiata.