Costume e Società

La crisi del sistema della gerarchia delle fonti

Le riflessioni del centro studi

Di Stefania Mantelli – Avvocato del Foro di Catanzaro

Il sistema delle fonti del diritto ha rappresentato, nell’iconografica simbologia della piramide, il più importante canone di ermeneutica giuridica che ha consentito, nel tempo, che fossero garantite la certezza del diritto e il principio di legalità.
Assieme al criterio cronologico (lex posterior derogat priori), al criterio della specialità (lex specialis derogat legi generali) e al criterio della competenza, il criterio gerarchico delle fonti (lex superior derogat legi inferiori) ha fornito un importante strumento all’interprete per individuare la norma da applicare in concreto ed evitare per quanto possibile i contrasti.
E difatti, la metafora della catena normativa fornisce una plastica esemplificazione dei rapporti formali tra le fonti, in una sequenza di connessioni che si giustificano nella legittimazione attribuita dalla fonte sovraordinata. Da ciò ne deriva che una norma può dirsi valida non per il contenuto di cui è portatrice, ma in base al titolo formale di chi l’ha posta in essere, sulla base di un’altra norma, posta più in alto nella piramide e quindi sovraordinata, fino ad arrivare alla norma fondamentale che si assume come valida.
La concezione della gerarchia delle fonti, introdotta nel nostro ordinamento nel codice del 1942, con l’articolo 1 delle Preleggi, è stata concepita dalla dottrina, facendo tesoro delle elaborazioni di Kelsen e della Scuola di Vienna, inizialmente quale strumento ordinatore del rapporto tra legge e regolamenti e tra questi e la consuetudine, mantenendo la sua struttura concettuale anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, dovendosi ritenere integrata con i dettami costituzionali da porsi in cima alla piramide.
Tale sistema, nel tempo, ha consentito di attribuire una sorta di coerenza al sistema normativo e una discreta stabilità applicativa, ma tale modello è stato messo in crisi dalla nascita e dallo sviluppo di nuovi poteri pubblici ultrastatali. Vi sono, infatti, oggi, molti ordinamenti ultrastatali e gli Stati nazionali hanno visto di fatto erosa la loro sovranità.
In un saggio del 2002, Sabino Cassese analizza l’influenza dei poteri pubblici internazionali sulla vita dello Stato traendo la conseguenza, intanto, che vi è un forte condizionamento delle Istituzioni superiori nell’esercizio della sovranità per qualunque decisione da assumere, dovendo rispettare parametri e criteri posti in sede internazionale o sovranazionale e che gli Stati perdono l’esclusività dovendo condividere le funzioni con altri organismi. Inoltre che gli organi esecutivi statali si trovano a dover eseguire anche decisioni di altri organismi, così come gli organi giudiziari si trovano a doversi adeguare anche a quanto stabilito da organi giudiziari superiori, diventando così strumenti di attuazione del diritto sovranazionale e delle decisioni giurisdizionali assunte dalle Corti europee.
Da ciò ne deriva che quella ripartizione statica e stabile discendente da quella verticalità gerarchica di matrice kelseniana, per come tradizionalmente conosciuta, è costretta a lasciare il passo a una immagine reticolare della produzione normativa per la moltiplicazione dei poteri pubblici a cui non è seguita una loro gerarchizzazione. Cassese parla di “un ordinamento su più livelli e a rete” poiché “non vi sono chiare linee di confine per aree o materie, ma interdipendenza strutturale e funzionale; le procedure non sono sequenze articolate lungo chiare linee di autorità, ma azioni svolte a supporto reciproco”. In questo quadro, “i poteri pubblici si sovrappongono e intrecciano, ma i conflitti vengono evitati grazie all’incompiutezza e fluidità, per cui nessuna istituzione è totalizzante, come nell’ordinamento dell’Europa medievale, e prevale l’indirect rule”.

Continua…

Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 18/11/2023
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