Il sonno inquieto di Salvatore e l’incontro al bar di paese
Storie d’altri tempi
Di Francesco Cesare Strangio
Una volta sistemate le brande, Salvatore li attrezzò con i materassi Permaflex.
Quella notte il sonno di Salvatore fu agitato. Si svegliava di soprassalto e guardava dalla finestra che dava verso il bosco, ma da quella posizione non si riusciva a vedere il cascinale della cugina.
Il suo pensiero andava sempre da quel povero uomo incatenato che veniva, come fosse un animale, portato verso il bosco. La stanchezza ebbe il sopravvento sui pensieri di Salvatore che in breve scivolò nel mondo dei sogni.
Quella notte i sogni furono dominati dall’uomo con la catena al collo che proferiva parole dapprima indistinte, poi, con un filo di voce, si concretizzavano nella richiesta d’aiuto.
Mancava molto, prima che il sole di quel nuovo giorno si affacciasse all’orizzonte e con la sua intensa luce facesse svanire i cattivi sogni come soffice neve.
Salvatore si destò dall’agitato sonno, si vestì e uscì di casa, inforcò la bicicletta e partì per andare al cascinale. A un tratto le sue orecchie rilevarono il rumore di un automezzo che proveniva dal lato della cascina. Salvatore, in tutta fretta, guadagnò la roggia che costeggiava la strada nel tratto in cui una serie di ginestre e di lentischi impedivano, a chi passava, di vederlo. Il rumore cresceva con il fluire del tempo, quando da dietro la curva, che distava poco meno di cento metri, sbucò una Fiat 600 di colore blu scuro: al volante c’era suo cugino Sergio, sul sedile del passeggero un trentenne dal volto malvagio. L’immagine dell’uomo, dai lineamenti poco accattivanti, fece capire a Salvatore in quali mani disgraziate era andato a finire il sequestrato.
Rientrato a casa, lo sguardo si posò sul marcatore del tempo che indicava le cinque meno venti. I suoi due fratelli dormivano tranquilli nel silenzio della stanza, cullati dal ticchettio dell’orologio.
Doveva capire se i sequestratori facessero i turni per tutte le ventiquattro ore, oppure stavano solo la notte a guardia del sequestrato.
Vinto dalla stanchezza, si rimise a letto e si riaddormentò per poi svegliarsi dietro l’insistente chiamare di Marco.
In tutta fretta s’infilò i pantaloni, allacciò le scarpe e corse fuori senza la maglietta addosso. Sua madre era da oltre un’ora nella stalla intenta a mungere le mucche, il cui latte le serviva per produrre la ricotta e il formaggio da vendere alle botteghe del paese.
Nella casa di Salvatore ognuno aveva un compito ben preciso, lavoravano tutti con schietta volontà di progredire, percorrendo lungo la stretta e difficile via dell’onestà.
La bicicletta, come sempre, Salvatore la trovò per terra: il cane era solito avventarsi contro e farla cadere; in un attimo la tirò su e partirono verso il centro del Paese, dove li aspettava una nuova giornata di lavoro.
Mastro Filippo, quel giorno, era partito per andare con la sua consorte a fare una visita specialistica nell’ospedale della città capoluogo di Provincia, pertanto la direzione del cantiere passò a suo nipote Rocco. Investito dalla responsabilità di dirigere il cantiere si comportò, in modo del tutto particolare, da persona per bene. Sapeva che, se non si fosse comportato a modo, Marco non sarebbe andato con lui a parlare con il concessionario dell’Honda.
Superando sé stesso, Rocco invitò tutti a prendere un caffè al bar. Per Salvatore, essendo partito in tutta fretta da casa, l’invito a prendere il caffè fu come la manna nel deserto.
Gli apprendisti salirono sulle biciclette e partirono; in testa Rocco, che a cavallo della moto sembrava un generale alla guida dell’armata Brancaleone.
Quella mattina il comandante non li portò né al bar Carducci, né al Primavera, ma al bar tabacchi di proprietà di un certo Domenico Tagliaferro. Il locale si trovava nella periferia Ovest del paese, lungo la strada provinciale. Il locale era diviso dall’abitazione da una porticina posta sulla destra del bancone, dove c’era la macchina del caffè, lo scaffale delle sigarette e quello dei super alcolici.
I Tagliaferro, per mandare avanti il locale, si erano organizzati con i turni: per un paio di ore al giorno toccava alla figlia Patrizia stare dietro al bancone. Patrizia si era diplomata al Magistrale e insegnava alle scuole elementari di un paese poco distante dal suo.
La ragazza aveva compiuto da poco ventitré anni, aveva il volto gentile e altrettanto il parlare; di contro aveva qualche chiletto di troppo.
Era da un pò di tempo che Rocco frequentava il locale e si era creato un buon rapporto con i Tagliaferro. Quando il gruppo arrivò al bar, Rocco era già dentro da un paio di minuti. Dietro al bancone c’era la madre di Patrizia, una donna che andava tra i quarantacinque e cinquant’anni.
Rocco, allo scopo di esaltare la propria persona, presentò tutti come suoi sottoposti.
Marco, astutamente, se ne uscì dicendo: «Signora, è un piacere conoscerla. È la prima volta che vengo qua, devo ammettere che è un bel locale. Devo ringraziare mastro Rocco per averci portati qui, così avrà modo di vederci più spesso.»
«Grazie! Dimmi… tu non sei del paese?» domandò la Signora.
Foto di form PxHere