Amore e Odio sotto il Vesuvio: la dualità della vita napoletana nel romanzo di Antonio Franchini
Di Luisa Ranieri
Il bradisismo a cui da sempre è soggetta la zona dei Campi Flegrei, se molto ci dice del respiro rovente del Vesuvio che lo provoca, moltissimo ci spiega della natura vulcanica dei suoi abitanti che hanno paura della loro montagna ma mai e poi mai sarebbero disposti ad abbandonarla perché essa tiene nelle sue mani ogni espressione della loro vita, da quella ordinaria di ogni giorno a quella stra-ordinaria che si esprime nella Musica, nel Teatro e in ogni altra forma d’Arte.
Questa strofa della lirica Vesuvio de I Zezi di Pomigliano d’Arco citata dallo scrittore Antonio Franchini nel suo libro Il fuoco che ti porti dentro serve a introdurci nei fili contorti del rapporto di amore e odio esistente da sempre tra i due protagonisti della vicenda narrata, la madre e il figlio, rapporto a spiegare il quale valgono, più che le teorie psicologiche/psichiatriche pure tentate dal secondo, i luoghi in cui tale rapporto nasce e si sviluppa e cioè Napoli e i suoi dintorni.
La madre è “una donna che puzza” nel senso che esterna in tutti i modi possibili il marciume che ha dentro, a cominciare dagli effetti fisici dell’espulsione, mai nascosta, di gas maleodoranti per continuare con quelli spirituali quando investe col titolo offensivo di “zoccola” qualunque donna le capiti a tiro (madre e figlie comprese) o inscena drammi veri o violentemente immaginati davanti a qualunque episodio della vita famigliare e sociale: sempre contro tutti e, quando le manca l’interlocutore, anche contro se stessa.
Il figlio, dal canto suo, cerca di sottrarsi alla vita tossica insieme a lei e, dai diciannove anni in poi, se ne va via di casa, cercando di mettere in atto il processo contrario a quello della genitrice.
“Così la ferocia che lei riversa contro il mondo assolvendo se stessa, io comincio a scaricarla soltanto contro di lei assolvendo il mondo” e, pur non essendo del tutto convinto del fatto che il giusto stia in ciò che dice e fa il mondo, persevera nel suo atteggiamento senza rendersi conto che, così facendo, sta mettendo in essere il gioco di un rapporto a due malevolo, destinato a perpetuarsi all’infinito, o meglio, fino a quando, proprio in virtù del potere rivelatore della scrittura, non giunge alla scoperta di una verità, altra, che capovolge i termini della questione.
Gli scenari della vicenda sono l’affollata e rumorosa Napoli con i suoi dintorni e la solitaria e muta Milano dove il figlio è costretto, quasi per una nemesi divina, a sistemare l’ormai vecchia e malata madre in un mini-appartamento contiguo al suo.
Nel primo ambiente, intorno alla protagonista ritratta, via via, nelle vesti di ragazza, di moglie, di madre e di suocera si muove una miriade di personaggi vocianti ognuno dei quali incorre (salvo rarissime eccezioni) in quel suo vituperio che al figlio appare odioso e al lettore addirittura simpatico, perché emblematico di quel vivere scoppiettante di vitalità proprio del napoletano abituato a vivere alle pendici di un monte, il Vesuvio, potente fecondatore di vita e, al contempo, portatore di una morte potenzialmente feroce.
Nel secondo ambiente ogni vitalità dell’anziana si spegne, le serrande vengono da lei abbassate a metà pomeriggio perché lo spettacolo della vita le sembra finito, salvo quando ritorna ai suoi usuali termini di “zoccola” per definire badanti o infermiere, o cerca di inventarsi nuovi personaggi con cui guerrescamente interagire sempre, però, nel ruolo di co-personaggio e mai di regista.
Al contrario, su tutta questa umanità si spiega la grande empatia del figlio/scrittore che va al di là di ogni cliché psico-socio-geografico per entrare nel mistero più profondo di ogni vita umana.
San Donato Milanese, 2 Giugno 2024