Norma sui beni culturali in Italia: dalla legge Bottai al Codice dei Beni Culturali
La tutela penale dei beni culturali
Di Francesco Donato Iacopino, Emanuele Procopio, Giovanni Passalacqua ed Enzo Nobile
A parte le normative pattizie di provenienza sovranazionale, in Italia per decenni ci si è avvalsi delle regole introdotte dalla legge Bottai, che tuttavia in tempi più recenti cominciavano a manifestarsi come non più idonee a fronteggiare l’evoluzione del mercato (lecito e illecito) dei beni culturali.
Difatti, oltre all’emanazione del Testo Unico in materia di beni culturali (Decreto Legislativo nº 490/1999, il cui unico e reale pregio può disi essere stato quello di unificare la normativa sui beni culturali e della tutela paesaggistica) il primo provvedimento di sicuro rilevo deve ritenersi la legge Costituzionale nº 3 del 2001.
Questa, oltre a suddividere tra Stato, Regioni ed Enti territoriali le competenze in materia di beni culturali, stimolò la nascita del Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici, venuta alla luce nel 2004 allo scopo di adattare la normativa di settore alle innovazioni apportate dalla predetta legge Costituzionale, ma anche all’esigenza di modernizzare la materia.
Il Codice si compone di 184 articoli e si articola in una prima parte dedicata alle disposizioni di carattere generale (i primi 9 articoli), seguita da ulteriori quattro parti: la seconda parte che si compone di 121 articoli e tratta dei Beni culturali; la terza è composta da 29 articoli e tratta dei Beni paesaggistici; la quarta si compone di 22 articoli e tratta delle Sanzioni; la quinta e ultima si compone di 3 articoli e contiene le Disposizioni transitorie.
Quanto ai contenuti, tra i principali elementi di novità introdotti dal codice, indubbio rilievo ha certamente l’affermazione contenuta nell’art. 1, secondo cui l’attuazione dell’art. 9 della Costituzione non può prescindere non solo dalla tutela del patrimonio culturale, ma anche dalla sua valorizzazione.
Concetti, quelli di tutela e valorizzazione attorno ai quali, a ben guardare, ruota l’intera normativa, anche con specifico riferimento alla ripartizione dei poteri e delle competenze tra Stato ed Enti Territoriali.
Peraltro tali esigenze corrispondono e trovano riscontro in quanto previsto dall’art. 117 della Costituzione, per come modificato dalla legge costituzionale del 2001, lì dove la norma attribuisce allo Stato la potestà legislativa e regolamentare in tema di tutela e agli Enti territoriali le competenze sulla valorizzazione.
La tutela dei beni culturali consiste, per l’art. 3, “nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, a individuare i beni costituenti il patrimonio culturale e a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione”.
Distinta dalla tutela, ma ad essa indissolubilmente legata, risulta la valorizzazione che, per l’art. 6, “consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzo e fruizione pubblica del patrimonio stesso.”
È inoltre introdotto il concetto di Fruizione pubblica, chepotenzialmente avrebbe potuto portare a conflitti d’attribuzione, attesa l’evidenza delle difficoltà interpretative circa l’esatta delimitazione delle attività di tutela e valorizzazione.
Onde prevenire tale rischio la dottrina ha attribuito, da un lato, a ciascuna delle due nozioni un significato coerente con la loro autonoma rilevanza costituzionale, dall’altro ha posto su un gradino più alto la tutela rispetto alla valorizzazione, stabilendo che in caso di conflitto la prima debba necessariamente prevalere sulla seconda (Tradotto in termini spiccioli, la dottrina ha predeterminato che qualora la fruizione pubblica incida negativamente sulla tutela del bene, tale fruizione può essere negata).
Tratto da La tutela penale dei beni culturali, Key Editore
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