Zaleuco e Tirso: tradizione e ambizione a confronto
Di Giuseppe Pellegrino
La prima cosa che Zaleuco pensò quando senti la voce della sposa Imena, che sembrava venire da lontano, che con tono sempre più alto ripeteva «Pastore, alzati! È venuto Tirso che ha cose urgenti da dirti» era stata che fosse in atto un attacco esterno contro Locri. La moglie aveva abbandonato il gineceo e il suo amato telaio al quale lavorava sempre. Zaleuco non capiva l’ostinazione della donna in quel lavoro. Non avevano figlie da dotare, né grandi necessità di vestiario o coperte. E l’unico figlio maschio aveva abbandonato Locri e vagava per il mondo. E tuttavia, Imena perdeva i suoi occhi al vecchio arnese, che era stato di sua madre e prima ancora di sua nonna, messo su un lato del gineceo, formato da un telaio su due assi di legno. La tela, alla fine, aveva i fili tenuti tesi da pesi di terracotta finemente lavorati che riproducevano Persefone, la Regina dell’Ade. Il ricordo del figlio aveva rinnovato un antico dolore che partiva dal cuore e si spostava all’occhio sinistro mancante del magistrato e coperto con una benda.
Subito la mente tornò al primo pensiero e il Legislatore rinvangava i rapporti dei Locresi con i vicini.
La polis aveva stretto buoni rapporti con Rhegion, e Siracusa era l’alleata di sempre. Avevano passato i confini dei monti e guardato l’altro mare, ma Medma, Metauro e Hipponion godevano della loro libertà. Ma con Kroton era guerra aperta. Kroton non godeva dell’appoggio di Kaulon, polis della quale Zaleuco non aveva gran fiducia, e della posizione levantina di Schillettio. Un attacco poteva venire solo da quella parte.Invero Zaleuco, dopo il pranzo, non era mai lucido. Si era accucciato sul letto usato per il pranzo ed era in quella situazione di dormiveglia che rende tutto irreale, poiché si ha la sensazione di percepire la realtà esterna come filtrata da una lente deformante e, nello stesso tempo, si sente l’impotenza a muovere un dito o dire una parola. Quel giorno il magistrato aveva abusato del cibo. Egli non era particolarmente goloso, pur tuttavia il pranzo povero di quel giorno era di particolare gradimento. Qualcuno aveva donato alla moglie dei fichi fioroni freschi, rari nel mese, stramente freddo, di Palamnaios dell’anno terzo della XL Olimpiade. Nel piatto, Imena li aveva serviti con del pecorino fresco cosparso di miele e delle noci e vi aveva aggiunto una focaccia, impastata con olio e origano selvatico e olive nere, cotta su una pietra rovente. Niente di meglio per Zaleuco. Non aveva poi innaffiato il pranzo con un bicchiere di vino diluito, ma solo bevuto acqua, poiché non solo osservava la legge che proibiva tale bevanda bevuta da sola in modo assoluto, ma era diventato astemio. Il Magistrato non era vecchio, ma sentiva l’età e l’aspetto era quello di un vegliardo con capelli e barba bianca. Era nato il secondo anno della XXIX Olimpiade e da allora erano trascorse 46 primavere e aveva acquisito quell’aspetto che contrastava con la sua grande energia.
Imena non chiamava da tempo il marito con il suo nome, ma usava quello di Pastore, originato dall’antico lavoro del compagno di desco, ma con l’accezione, che ormai era imperante nel popolo, di guida delle genti. Cosa, questa, che il Magistrato gradiva, poiché non era dimentico della sua passata condizione di servo, ma era ugualmente conscio di quella che stava vivendo. Se l’era meritato, quel soprannome, Zaleuco, poiché la sua legislazione aveva fatto dei locresi un popolo unito e la fama delle sue leggi aveva oltrepassato il mare. Finalmente Zaleuco realizzò. La sue mente provò un brivido. Tirso era un giovane ambizioso, discendente dalla casta delle donne delle cento case. Godeva di grande prestigio presso il Consiglio dei Mille e spesso aveva fatto capire di non tollerare il sistema del Governo della Magistratura ma, soprattutto, il sistema delle leggi di Zaleuco. Tirso univa in una sola persona qualità, difetti e virtù tra loro non conciliabili. Era indiscutibilmente bello e ricercato dalle donne e non di rado anche dagli uomini. Alla bellezza fisica univa una forza eccezionale e anche una sapienza non disgiunta da furbizia, che lo rendeva al di sopra degli altri. Non perdeva occasione di vantare l’origine nobile della sua famiglia e ostentare la sua agiatezza che solo il divieto di emettere moneta nella locride limitava. Aveva sposato la figlia di Callia, proprietario di terra, compreso interi boschi di pregiato legname per le navi e dai quali ricavava la pece. Da giovane era stato dissipato, arrogante, insolente e ambizioso. Da uomo non si smentiva. Aveva avuto, però, la fortuna di avere maestri eccellenti. Sopra tutti Senocrito, cantore, poeta e filosofo, che lo aveva iniziato alla retorica, arte nella quale Tirso eccelleva. Il poeta provava per il giovinastro un amore insano e totale, che coinvolgeva il fisico, ma soprattutto la mente e l’animo. A queste attenzioni, il giovane non era insensibile. Vanitoso e opportunista com’era, presenziava ogni evento e ogni riunione.