Tra ricordi, progetti e riflessioni: storie di vite intrecciate
Storie d’altri tempi
Di Francesco Cesare Strangio
«Solo a leggerlo ma non capisco il significato» rispose la donna.«Quel quadro l’ha dipinto mio nonno Marco affinché non dimenticassimo che “Tutte le cose mortali sono destinate a perire”. È un chiaro monito ad abbandonare i principi del male e incamminarsi sulla via che porta verso il bene. Tutto qua… niente di più.»
«Ricordo tuo nonno, era un grande» disse Mezza Cazzuola.
In Marco era ormai maturo il pensiero di appoggiarsi a lui per il deposito del denaro in Svizzera.
Inventandosi una frottola, aprì l’argomento dicendo che aveva un pò di buoni ordinari del tesoro prossimi alla maturazione e doveva smobilitarli. Marco manifestò preoccupazioni per l’avvenire e quindi aveva intenzione di portare il denaro a Lugano.
«Non ci sono problemi. Essendo un frontaliere, in dogana mi conoscono e possiamo passare indisturbati» rispose Mezza.
Era fatta, doveva solo organizzare la partenza.
«Ascolta, quand’è che parti?» chiese Marco.
«Il due di settembre» rispose Mezza.
«Ti dispiace se vengo con voi?» domandò Marco.
«Ma scherzi?! Anzi, ci farai compagnia!» rispose Mezza, con gioia.
Marco lo ringraziò e rimase in silenzio assumendo la postura del pensatore di Rodin.
La musica si diffondeva leggera. L’armonia delle note distribuite dallo stereo facilitò i ricordi; fra i tanti vi era uno che portò Mezza indietro nel tempo quando, ancora ragazzino, andava a scuola e iniziava a incamminarsi, sempre di più, nel mondo della ragione.
Tutti i pomeriggi i compagni di scuola andavano a imparare un mestiere. Tra loro c’era un certo Angelo che frequentava la bottega del falegname. Il professore, sapendo della cosa, diede mandato all’allievo falegname di fabbricare una righetta di legno dallo spessore di due centimetri, larghezza quattro, lunghezza massima di un metro. La riga gli serviva a infliggere allo studente il castigo che, a suo insindacabile giudizio, meritava. Di solito a subire il collaudo della righetta erano le mani di Angelo.
Il pensatore di Rodin si destò dal torpore dei pensieri e disse: «Ho pensato che se vuoi rientrare al paese c’è una buona possibilità che fa per te».
«Dimmi! Di che si tratta?» domandò Mezza.«Ho saputo che vogliono vendere il bar tabacchi della stazione.»
«Quanto chiedono?»«Chiedono cinquanta milioni da pagare in quattro tranche.»
Mezza rimase in silenzio a riflettere su quanto detto da Marco.
«Dammi un paio di giorni per pensare. La cosa non mi dispiacerebbe. In fin dei conti è un buon lavoro» disse Mezza.
«Domani sera andremo a dare un’occhiata, così ti renderai conto di come stanno effettivamente le cose» propose Marco.
«Se mi rendo conto che il gioco vale la candela, scriviamo una carta e gli lasci quindici milioni di caparra.»«Al tuo ritorno dai altri dieci milioni e prendi possesso così ti metti a lavorare. Per il saldo riservati un anno.»«Se mi dà questa possibilità, alla fine dell’anno facciamo il cambio di gestione» concluse il ragionamento Mezza.
Uno sguardo d’intesa, tra la ragazza e Mezza Cazzuola, servì per dare il via libera all’accordo.
Era passata la mezzanotte quando Mezza Cazzuola e la sua ragazza presero commiato.
Erano le otto di domenica e, a quell’ora, Marco era solito recarsi in chiesa: anche quella volta prese posto dietro Rocco; sapeva di trovare il vecchio amico alla stessa ora e allo stesso posto accompagnato dalla moglie Patrizia e dalle due bambine che somigliavano a lui come due gocce d’acqua. Dopo l’incidente Rocco era mutato radicalmente, divenendo ossequioso e devoto alla santa chiesa.
Don Angelo, come sempre accompagnato dai chierichetti, si muoveva con difficoltà. Aveva compiuto da poco ottantadue anni. Anche per lui, così come per tutte le cose, il tempo volgeva al termine.
Puntualmente, come da programma, alle dieci la messa finì.
Rocco, dopo aver salutato Marco, prese la via di casa mentre il vecchio compagno d’arte diresse al bar Primavera e si fece il secondo caffè del mattino. Uscito dal bar Primavera, andò rifilato al bar Carducci, dove prese un panino imbottito con mortadella e una birra. Terminata la consumazione, mise a moto la Guzzi e mosse verso casa. Non fece in tempo a entrare che udì lo scoppiettio del motore di una motocicletta: era compare Cosimo con la moto Gilera Saturno 125; sceso dal motociclo, in tutta fretta, varcò il cancello che separava il cortile dalla strada. Marco, nel vederlo, uscì sul patio e lo invitò a entrare.
Cosimo era il figlio di comare Angelina, un giovane il cui aspetto oltraggiava la creazione.
Cosimo, dopo la morte del padre, si era fatto carico, assieme alla mamma, della guida della famiglia.
Il ricordo del padre se lo portava dentro con grande sofferenza: non si raccapezzava e ancor più non si dava per vinto della dipartita del genitore. Per lui il mondo era finito nel momento in cui suo padre aveva esalato l’ultimo respiro. Da allora aveva avuto inizio un lungo e logorante travaglio che era divenuto insostituibile compagno di giorno e di notte.
«Compare Cosimo, a cosa devo l’onore?» chiese Marco al giovane.