Costume e SocietàLetteratura

L’autoriciclaggio di beni culturali

La tutela penale dei beni culturali

Di Francesco Donato Iacopino, Emanuele Procopio, Giovanni Passalacqua ed Enzo Nobile

L’autoriciclaggio di beni culturali è disciplinato dall’art. 518 septies del Codice Penale, che testualmente così recita:

Chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, beni culturali provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da 6.000 a 30.000 euro.
Se i beni culturali provengono dalla commissione di un delitto non colposo, punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni, si applicano la reclusione da due a cinque anni e la multa da 3.000 a 15.000 euro.
Fuori dei casi di cui ai commi primo e secondo, non sono punibili le condotte per cui i beni vengono destinati alla mera utilizzazione o al godimento personale.
Si applica il terzo comma dell’articolo 518-quater.

Caratteristica principale di detto reato e da individuarsi nel soggetto attivo del reato che secondo la dizione letterale della norma altro non può essere se non colui che ha commesso il reato presupposto.
E, difatti, il soggetto attivo del reato, come prima detto, è colui che ha commesso o concorso a commettere un delitto non colposo (tra i più frequenti si ricordano il furto, la truffa, la rapina, l’appropriazione indebita).
La condotta incriminata può consistere, alternativamente, nell’impiegare, sostituire o trasferire in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative beni culturali provenienti dal delitto non colposo in precedenza perpetrato, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.
Il legislatore, tipicizzando la condotta, ha previsto che il reato si consuma nel momento in cui il soggetto attivo del reato, che si è procurato il possesso del bene culturale a mezzo il compimento di una attività delittuosa, lo immette nuovamente nel circuito economico o, comunque, pone in essere qualsiasi condotta tipica che, per come previsto dalla norma, si concretizza nella sostituzione o nel trasferimento.
Ovviamente non è sufficiente che l’agente immetta sul mercato il bene culturale, lo trasferisca o lo sostituisca ma, ai fini della configurazione del reato, occorre che, in concreto, tali operazioni risultino idonee a ostacolare la tracciabilità che conduce dalla disponibilità del bene culturale alla sua fonte genetica.
E, d’altronde, l’inciso “in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa” individua nella laboriosa e accurata attività di eliminazione di tutti i segni particolari impressi sul bene al momento in cui in origine è stato realizzato che non consentano agevolmente a risalire alla sua origine.
Dunque, non qualsiasi attività di trasformazione del bene, ovvero anche quella grossolana, trova la sua sanzione penale, ma solo quell’attività che, per come si ricava dall’uso da parte del legislatore dell’avverbio concretamente, consistente in una accurata opera di modifica.
L’oggetto materiale del reato è costituito dal bene culturale proveniente dal delitto presupposto.
L’elemento soggettivo del reato di autoriciclaggio è il dolo generico e, cioè, la coscienza e volontà di realizzare il fatto tipico.
Si richiede, infatti, la volontaria realizzazione di una delle condotte dissimulatorie previste da detta norma, accompagnata dalla consapevolezza dell’idoneità dell’operazione realizzata a creare un concreto ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa del bene culturale autoriciclato.
Trattandosi di reato di pura condotta, la consumazione si ha nel momento e nel luogo in cui viene realizzato dall’agente il comportamento tipico.

Tratto da La tutela penale dei beni culturali, Key Editore

Redazione

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