“Donna, Vita, Libertà”: a che punto è la lotta per i diritti e contro la violenza di genere
Di Greta Panetta – studentessa del Liceo Classico Ivo Oliveti di Locri
Il 25 novembre viene celebrata la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne, che comprende sia la violenza fisica sia quella psicologica, e che, purtroppo, colpisce le donne senza distinzioni di età, rango sociale, colore della pelle o nazionalità. La scelta della data è un omaggio alle sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana, barbaramente uccise il 25 novembre 1960 dagli agenti del regime dittatoriale di Rafael Trujillo. Lo scopo principale di questa giornata è porre l’attenzione sul fatto che la violenza sulle donne rappresenta una violazione dei diritti umani. Tuttavia, dal 1960 ad oggi, non sembra essere cambiato molto, principalmente perché il femminicidio continua a mietere vittime o a sconvolgere le vite di numerose donne, con la stessa ferocia di oltre cinquanta anni fa, che si basa sull’idea che l’uomo debba imporre il suo dominio in ogni campo sociale, da quello lavorativo a quello familiare.
La violenza contro le donne, tuttavia, ha radici antiche. Sin dall’antichità, i ruoli sessuali si sono strutturati su basi gerarchiche e perfino il pensiero di grandi filosofi come Aristotele si fondava sulla presunta inferiorità femminile, che portava all’esclusione delle donne dalla società e dal potere decisionale delle sue istituzioni. In età medievale, le classi sociali puntavano alla salvaguardia dell’istituzione matrimoniale e non delle esigenze personali, spesso trattando il corpo femminile come un bene patrimoniale su cui il marito esercitava la propria autorità. Pensare che solo durante i primi anni dell’Ottocento si segnali l’inizio di un cambiamento d’approccio nei confronti del tema dei diritti femminili mette i brividi, in quanto dimostra quando, prima di allora, la salvaguardia dei diritti della donna e la sua libertà fossero temi considerati superflui.
A partire dal Novecento, per fortuna, le donne hanno iniziato a battersi per ottenere i diritti che fino a poco prima non immaginavano neanche di poter pretendere. Tuttavia, osservando la società odierna, sembra che spesso ci dimentichiamo delle battaglie combattute da queste donne o non diamo loro la giusta importanza. Sono stati pochi, infatti gli avvenimenti che recentemente sono riusciti a smuovere un po’ le coscienze relativamente a questo importante argomento e uno di quelli maggiormente significativi è sicuramente quello verificatosi il 16 settembre 2022, quando Mahsa Amini è stata brutalmente assassinata dalla polizia iraniana solo per non aver indossato correttamente l’hijab.
Con il termine ḥijāb, con il quale indichiamo per semplicità il tradizionale velo islamico, non dobbiamo pensare solo a un semplice capo d’abbigliamento, ma a una barriera che separa, isola o nasconde un corpo, limitandone di fatto da libertà personale. In questi termini, al di là della mera questione tradizione o fideistica, l’obbligo di indossarlo secondo parametri prestabiliti è rappresentativo del vero scopo della violenza di genere: demolire l’identità e la dignità della donna, costringendola a vivere in una condizione di isolamento e sottomissione.
A soli due anni dalla triste morte di Mahsa, ha avuto luogo un altro evento simbolico, questa volta più silenzioso, ma che ha portato a un simile epilogo di oppressione. La studentessa iraniana Ahou Daryaei, lo scorso 2 novembre, si è tolta tutti i vestiti e l’hijab per passeggiare, con la sola biancheria intima indosso, nel cortile della sua Università. Un gesto che rimbomba tra le stanze silenziose della violenza e che, almeno nel mondo occidentale, ha acceso la speranza di un cambiamento. Come purtroppo accaduto a tante altre attivisti, anche Ahou è stata messa a tacere dalla polizia iraniana che, stando alle poche informazioni giunte fine a noi, , dopo averla prelevata ha provveduto a rinchiuderla in una struttura psichiatrica, cercando di sminuire l’importanza della sua protesta.
Nonostante le repressioni, rimane l’importanza di un atto rivoluzionario che, pur rimanendo silenzioso, riesce a scuotere le coscienze delle persone su un tema così delicato, tanto più che dimostra come, con il riflettore puntato addosso, anche gli oppressivi tutori della legge iraniani abbiano dovuto in qualche modo cambiare il modus operandi rispetto a quello ben più violento adottato nei confronti della povera Mahsa.
Tutte le proteste portate avanti da queste ragazze sono diventate una critica non solo contro un regime ma, più in generale, contro tutte le leggi oppressive riguardanti la libertà delle donne, rendendo lo slogan Donna, vita, libertà il simbolo di un movimento pacifico che cerca di farsi strada in una realtà oppressiva e violenta al fine di riconoscere uguali diritti per tutti.
Indipendentemente dal genere indicato sulla carta d’identità…
Foto: mosaico-cem.it