La strenua difesa della legge di Locri
La Repubblica dei locresi di Epizefiri
Di Giuseppe Pellegrino
Poco importava aver disseminato il proemio e le leggi di precetti sull’obbligo di rispettare la legge. La verità è che una legge trova il rispetto in sé stessa se viene considerata giusta. Ma una volta dubitato della sua giustezza, quale cittadino avrebbe sentito in se stesso il dovere di ubbidire alle leggi? L’ira gonfiò il petto di Zaleuco. Non avrebbe mai permesso, pensò il Magistrato, che il lavoro di tanti anni finisse per essere gettato al vento. Non avrebbe mai permesso che costumi facili e uomini molli potessero mai incrinare Locri. Il pensiero gli fece animo e la testa andò alla tenzone del giorno dopo. Tirso, il giovane Tirso, lo stratega, l’oratore, il politico, il cospiratore avrebbe conosciuto la sua triste sorte il giorno del giudizio. Se l’accecamento non poteva esserci, il cappio non avrebbe dato nobiltà al discepolo di Senocrito.
Passò anche quel giorno, e vennero le prime ombre. Solo alla sera Agesilao si fece vivo. L’oplita era uscito frastornato dall’andamento del giudizio contro Tirso. Disarmato aveva voluto assistere, anche se di tanto in tanto si allontanava per controllare i movimenti degli opliti, tenuti nascosti alla Agorà, ma in posizione utile per qualsiasi intervento. Agesilao entrò con circospezione. Era armato di spada ma senza elmo. Il Magistrato lo vide e il suo cuore si allargò. Fino a quando ci sarebbero stati uomini come Agesilao il precetto sul valore della patria aveva un senso. Agesilao si sedette ad un cenno del Magistrato, che era vicino al fuoco, spento non da poco. Con il capo chino chiese:
«Cosa vuoi che faccia domani, Pastore?»
A Zaleuco non sfuggì il senso quasi eversivo della domanda. Frenò l’ira che si stava impadronendo di lui, poiché il rispetto delle leggi non prevedeva eccezioni di nessun tipo. Poi capì l’angoscia dell’oplita, che con la sua domanda chiedeva solo di avere risposte che indicassero che quella seguita era la via giusta, e, piano e con chiarezza, rispose:
«Niente Agesilao. Non bisogna fare niente. Se siamo nel giusto, domani sarà un giorno in cui dobbiamo onorare ancor di più gli Dei, perché ci hanno fatto compartecipi della loro saggezza. Se non siamo nel giusto, dobbiamo riflettere sui nostri errori e pagare secondo la nostra legge”, disse il Magistrato con grande pacatezza.
«Ma Tirso è un cospiratore» disse con fermezza e veemenza l’oplita, ma senza alzare la voce.
«Mi sono convinto che anche Tirso a suo modo voglia bene alla patria. Egli è giovane ed è stato educato a guardare al futuro, senza rispetto alcuno al passato, che non si è peritato di conoscere» rispose il Magistrato sempre con la stesso tono. Poi, sempre allo stesso modo continuò:
«Il futuro appartiene ai giovani e Tirso lo è. Ma nessun buon futuro ci sarà per chi pensa di costruire nell’aria senza tener conto della vecchia terra che sta sotto. Ogni legge e ogni nostra iniziativa trovano il loro essere nella nostra storia. Esse vanno adeguate al tempo in cui si vive, ma non a ogni stormire di fronde. Tirso domani perderà la sua battaglia perché non chiede di adeguare una legge alle esigenze mutate della patria, ma chiede solo di cambiare il nostro dettato perché lo ha violato e vuole evitare la giusta pena, perché a lui così conviene. Questo il Consiglio dei Mille lo sa già. Questo andrò a dire domani in difesa della legge, con il cappio al collo» concluse il Legislatore.
Ora Agesilao si sentiva tranquillo. Mai aveva dubitato della giustezza del Magistrato e delle sue leggi. La sua inesperienza nella cosa pubblica gli aveva fatto vedere nella mossa di Tirso pericoli che non esistevano. Ora poteva andare a dormire tranquillo. Salutò il Magistrato, pensando al domani con gran sollievo.
Passò la notte e venne l’alba. Il Magistrato non si svegliò presto, ma si attardò nel letto. Un sonno profondo, lungo e ristoratore, lo rimise in forze. Andò nella latrina, mise dell’acqua in una bacinella di terracotta, bagnò poco la faccia e la asciugò, poi andò in cucina dove Imena lo aspettava. Mangiò poco, ma non era nervoso. Imena lo guardava e non parlava. Poi vide lo sposo allontanarsi e andare di nuovo vicino alla latrina. Al muro c’era una lunga corda di cuoio, retaggio della antica professione, che egli aveva recuperato, dopo che era tornato in patria, dal vecchio mandriano, per ricordare sempre quello che era stato. Tornò in cucina e con le mani con grande difficoltà fece un cappio. La pelle era ormai dura e difficilmente si piegava. Prese prima dell’olio e la unse dove doveva formare il cappio, poi domandò alla sposa se vi era sugna. Imena prontamente prese un vaso lungo di terracotta che era lì vicino. Il Magistrato mise le mani, tirò il grasso bianco, denso di maiale e unse la corda, che ormai stava diventando morbida. Finì di fare il cappio e lo mise al collo. Poi il resto della corda lo avvolse attorno al cinto, si pulì le mani con uno strofinaccio, e si apprestò a uscire. Nessun segno di nervosismo. Imena non smise mai di guardare, con il cuore in tumulto, il Magistrato. Voleva parlare, ma temeva una reazione dello sposo. Finalmente, quando lo vide che stava per uscire, con voce tremula, disse:
«Io conosco il principio di questa storia, Pastore. Tu forse conosci anche la fine. Puoi dirmela?»