Dopo la tempesta: speranza e attesa nella comunità
Di Francesco Cesare Strangio
Una coltre di nuvole scure e basse s’impadronì della vallata facendo calare il buio. Nel giro di un quarto d’ora ebbe inizio una danza atavica animata dalla musica del fragore dei tuoni e dei fulmini. Sbuffi di vento condizionavano la traiettoria della pioggia che, liberata dalla prigionia delle nuvole nere, precipitò sulla terra con straordinaria pesantezza.
Il suolo, arso dal caldo torrido dell’estate, divorava in un attimo l’acqua che la baciava. La tempesta durò un paio di ore e poi il silenzio.
Durante la notte, il notevole calo della temperatura favorì il sonno della gente.
All’indomani il cielo divenne nuovamente terso: il fragore dei tuoni e la tempesta erano passati nel dimenticatoio.
Il gruppo dei discepoli al bar tenne una breve riunione con lo scopo di programmare la giornata lavorativa.
Dalla riunione emerse che il lavoro doveva andare avanti a ogni costo, fermarsi significava sconfitta. All’unanimità fu nominato Marco come coordinatore del lavoro. Da lì in poi tutto doveva essere programmato e disciplinato del nuovo capo cantiere.
La squadra riprese il ritmo di sempre; i lavori procedevano in modo eccellente, anche se non si poteva nascondere che la mancanza dello zio e del nipote era incolmabile.
Alle undici e un quarto Marco si assentò dal cantiere per fare ritorno alle dodici e mezzo a cavallo di una Vespa Piaggio 125: finalmente, oltre a Rocco, un altro del gruppo aveva comprato un mezzo nuovo.
Marco ispezionò il parcheggio delle biciclette e notò che la bici di Mezza Cazzuola era mal messa. Tutti i compagni si riunirono attorno alla Vespa e la periziarono ammirati.
Marco disse: «Questa sera si va al bar Primavera a bagnare la Vespa. È inutile che vi ricordi che un compagno di lavoro è in coma all’ospedale.»
Quanto formulato dall’assennato Marco, stava come il sole al giorno e il buio alla notte: “niente baldoria”.
«Senza offesa per nessuno, faccio omaggio della mia bicicletta a Mezza Cazzuola». Disse Marco, rivolgendosi ai compagni.
Alle cinque in punto staccarono e partirono per andare al bar. Marco, nella sua nuova posizione, lasciò il cantiere per ultimo.
Al bar Carducci, il proprietario chiese notizie dello stato di salute di Rocco.
Mentre il gruppo prendeva posto al tavolo vicino alla vetrata che dava sulla piazza, Marco rendeva lumi ai Carducci sulle condizioni di salute di Rocco.
Nella saletta, Nando, Peppe, Nicola e Antonio giocavano a carte; con frequenza, imprecavano accusando il rispettivo compagno che sbagliava nell’aprire il gioco.
Il fumo delle sigarette era così fitto che a stento si riusciva a vedere le persone impegnate nel gioco.
Com’era uso, a conseguenza dell’acquisto della nuova Vespa 125, quel giorno toccò a Marco offrire da bere.
Verso sera, come sempre, Domenico Tagliaferro e la figlia partirono per andare all’ospedale.
Salvatore e Marco si presentarono al bar per fare compagnia alla donna che era rimasta da sola a condurre il locale.
All’ospedale, padre e figlia stavano salendo le scale per raggiungere la sala d’attesa del reparto di medicina intensiva, quando incontrarono l’infermiere che prestava servizio nel reparto. L’infermiere era un ometto secco, con un mento aggressivo e un paio d’occhi grigi penetranti: la tipica figura dell’uomo che sa il fatto il suo.
Venne d’istinto a Patrizia chiedere informazioni sull’andamento di Rocco.
L’infermiere la guardò e con un lieve sorriso disse: «Signorina, state tranquilla, il vostro fidanzato, tra un paio di giorni, sarà fuori dal coma.»
«Che cosa mi dite?». Chiese con decisione Patrizia.
«Ne ho viste centinaia di persone in coma e so quello che dico.»
«Voi mi riempite il cuore di gioia. Se posso, cosa vi porta a così tanta sicurezza?»
«Questa mattina nel toccargli il dorso della mano ha mosso leggermente le palpebre. Ecco perché dico che in un paio di giorni esce dal coma. In altri casi in cui si è verificata la stessa reazione, dopo due giorni hanno ripreso conoscenza.»
«Grazie!» rispose commossa Patrizia. Istintivamente la ragazza abbracciò l’infermiere sotto gli occhi increduli del padre. Salirono la scala con energia, non vedevano l’ora di essere da Rocco.
Mastro Filippo stava fuori sul balcone a fumare una nazionale senza filtro. La responsabilità che incombeva su di lui, per via del nipote rimasto orfano in tenera età, lo faceva apparire stanco e invecchiato più del solito, tanto che non si avvide dell’arrivo di Patrizia e di Domenico.
Destato dalla voce di Domenico, Filippo si voltò, gli occhi palesarono lo stato di malessere interiore in cui versava. Dopo le solite domande, mentre salivano le scale, seguì il racconto dell’infermiere.
«Sì! Me l’hanno riferito. Che cosa posso dire? Se quanto dicono risponde al vero, nel giro di due giorni si vedranno i risultati.»
Patrizia sentì il bisogno di chiedere al medico di turno di farla entrare per parlare con Rocco. Aveva letto di tanti pazienti in coma che nel sentire la voce dei suoi cari si erano svegliati.
Il sole stava per piegare dietro ai monti anticipando, da lì a poco, immagini di uno straordinario tramonto.