Di Francesco Cesare Strangio
Si appollaiarono per oltre mezz’ora dietro una siepe e attesero pazienti.
Allo scadere del tempo prefissato, uscirono allo scoperto e si riavvicinarono alla finestra del cascinale: niente, nessun movimento.
A quel punto, non gli restava che procedere verso il luogo in cui era segregato il sequestrato.
I due amici erano amanti della buona cucina e del proprio lavoro; non avevano mai immaginato di dover camminare di notte in un bosco dagli alberi così stretti e alti da non permettere alla luce della luna di illuminare il loro cammino. Non sapere dove mettere i piedi e con la paura che forse ci fosse qualcuno nascosto dietro di uno dei tanti alberi dai tronchi giganti. Quella situazione di straordinaria portata provocava in loro uno stato di enorme angoscia.
Ogni dieci metri i due si fermavano e, come gatti aguzzavano l’udito allo scopo di leggere i rumori del bosco. A intervalli irregolari, le civette, dall’alto degli alberi, facevano sentire la loro voce.
Dopo circa un paio di minuti riprendevano a camminare verso la meta, seguendo il tortuoso viottolo.
Finalmente arrivarono nei pressi della grotta, dove due giorni prima c’era l’uomo dalla lunga barba con la catena al collo.
Salvatore istintivamente controllò se avesse con sé la lama del seghetto per il ferro: era ben messa nella tasca posteriore dei pantaloni. I due si nascosero dietro al tronco di un albero in attesa che i loro sensi dessero il via libera. Rimasero in quella posizione per oltre un quarto d’ora ad ascoltare la sinistra voce degli abitanti della notte. Il silenzio surreale di quei luoghi era disturbato dal brusio delle foglie degli alberi animate da un lieve alito di vento.
Gli animali che svolgono la loro vita di notte, si facevano sentire a intervalli regolari come se obbedissero al pendolo del grande orologio della natura.
La presenza umana, fino a quel momento, non fu percepita.
Mentre erano intenti a tradurre le voci della notte, da dietro le spalle sentirono dei rumori confusi. Sembravano i passi di un paio di persone; immediatamente si alzarono e presero a correre lungo il viottolo fino a quando la loro corsa non fu bloccata da una parete di roccia che si alzava a strapiombo. Le gambe dei due divennero molli; rimasero lì fermi e piegati per terra come due marionette alle quali erano stati recisi i fili.
Nuovamente calò il silenzio, il rumore era svanito con la stessa rapidità di com’era arrivato. Tutto taceva fino a quando non udirono il grugnito di un numero indistinto di cinghiali. Marco rifletté un attimo e pervenne alla logica conclusione che la presenza dei cinghiali escludeva quella dei sequestratori.
I due ripresero forza e ritornarono sui propri passi. Arrivati alla grotta, Salvatore accese la torcia e illuminò l’interno. Non c’era nessuno… il ricettacolo era vuoto e pulito di ogni traccia che potesse confermare che lì ci fosse stato un uomo.
«Non c’è nessuno!» esclamò Marco.
«Eppure era qui fino a due sere fa…»
«Forse ti sei sbagliato!» osservò Marco.
«Assolutissimamente no! Era questa la grotta». Ribatté Salvatore.
«Ciò potrebbe stare a significare che il sequestrato è stato trasferito: probabilmente hanno ritenuto il rifugio poco sicuro».
«Oppure, si stanno preparando a rilasciarlo» terminò Salvatore.
Rimasero fermi all’ingresso di quel posto senza entrare, come se non volessero partecipare alla tortura che produce la privazione della libertà. Sorpresi e increduli, presero a perlustrare le grotte della zona. Niente! Non c’era traccia del sequestrato. Preso atto della non presenza del povero sventurato, poco dopo ripresero la via del ritorno.
Salvatore si girava spesso in direzione di quel ricettacolo, interrogandosi sulla fine che avesse potuto fare l’uomo incatenato.
Arrivati al cascinale, spinti da naturale curiosità, provarono a entrare. La porta era chiusa a chiave; tutto, apparentemente, si presentava in perfetto ordine, come se mai nessuno avesse abitato il cascinale negli ultimi tempi.
Da come si presentavano le cose, non restava altro che rientrare a casa.
Arrivati all’anfratto dove avevano lasciato le due biciclette, i due le inforcarono e partirono senza spingere sui pedali.
Lungo la via del ritorno, ognuno tirò le proprie conclusioni. Quando i due amici si salutarono, le lancette dell’orologio erano sull’apogeo della notte.
La mattina seguente si ritrovarono alle sette sul posto di lavoro. Mastro Filippo quella mattina non c’era, era rimasto di guardia all’ospedale. La mancanza di Rocco fece calare uno spesso velo di tristezza sul volto dei lavoratori. Il nuovo giorno appariva strano e senza anima. Fu così che Marco e Salvatore dissero ai compagni che era loro intenzione recuperare una macchina e andare a trovare Rocco.
La volontà dei due compagni di lavoro di andare a fare visita a Rocco, portò il resto del gruppo ad accodarsi.
Alle dieci, di quello stesso giorno, il gruppo era nella sala d’attesa ad aspettare che aprissero la porta del reparto di medicina intensiva.