Costume e SocietàLetteratura

Il diritto e il nome delle cose: il limite dell’interpretazione

Le riflessioni del centro studi

Di Sandro Furfaro – Avvocato del Foro di Locri

A volte pare essere proprio la corretta percezione del termine di comparazione a mancare. E può dirsi, anzi, che sia la stessa base reale del diritto a non essere considerata se non, alternativamente, come un divenire continuo e veloce che bisogna inseguire, ovvero ponendosi rispetto alla cosa da interpretare in modo tale da confondere (non certo per ignoranza ed errore) norma, fine di essa e principi dell’ordinamento secondo criteri di privilegio di istanze particolari che nulla hanno da spartire effettivamente con la ratio della disposizione considerata e coi principi che la sorreggono o che sorreggono il sistema.
Quando, ad esempio, Jacques Darrida afferma che “ogni caso è altro, ogni decisione è diversa e richiede un’interpretazione assolutamente unica, che nessuna regola esistente e codificata può né deve assolutamente garantire”, con tale dire immediatamente si immettono nell’interpretazione “elementi di radicalità per azione di alcuni indirizzi filosofici generali, talora condotti dai giuristi ad esiti estremi, … l’influenza dei quali è agevolmente rintracciabile in una certa evoluzione post-moderna nichilistica”.
Più in profondo, pare che del diritto si abbiano idee contrastanti: per un verso, il lemma è evocato a richiamare a un quid (il diritto, appunto) che, come fosse entità a sé stante, è posto quasi al di fuori dei sistemi positivi; per altro verso, invece, di diritto si dice fermando l’attenzione sulla singola norma che di volta in volta interessa, o, al più, sul complesso di norme di disciplina di una materia, senza considerare (o poco considerando) l’intero complesso di disposizioni che si dipanano sempre da determinati principi-guida (o, se più piace norme-principio) che, in un certo tempo, sorreggono l’ordinamento di una certa società organizzata e che costituiscono le disposizioni fondamentali sulle quali concettualmente il diritto si definisce come espressione concreta di regole rispondenti a esse.
In quest’ultimo senso (il più concreto, nonostante le idde dei cultori degli assoluti) il diritto, per ciò che riguarda l’interpretazione, non è un’entità a sé stante, diversa dalla legge e, quindi, dai documenti (per dirla con Giovanni Tarello, ma si veda pure Riccardo Guastini) che costituiscono le fonti della cognizione. E ciò è tanto vero che è proprio la legge ad avere impresso un più marcato carattere normativo al concetto di diritto rilevante in tema di interpretazione, con l’uso, nell’articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, della locuzione “principi generali dell’ordinamento dello Stato” in luogo dei “principi generali del diritto” di cui alle omologhe disposizioni contenute nel Codice civile del 1865.
Può ripetersi, in proposito, quanto sostenuto da Tullio Delogu ottanta anni or sono, allorquando (così come oggi, per altro) le diverse spinte verso un rinnovamento, in verità più acclamato che concretamente proposto, sfociavano inesorabilmente nell’evocare principi e diritti, immaginando sistemi più come somma di particolari piuttosto che come schemi reali che si dipanano da regole-guida precise che, cioè, “il diritto” è, sì “un insieme di norme destinate a raggiungere un complesso di finalità, richieste dalle idee politiche, economiche e morali vigenti in un determinato momento storico”, ma che la dimensione giuridica e quella politica o economica non possono essere oggetto di un medesimo giudizio “in quanto gli scopi da raggiungere attengono a valutazioni di ordine socio-economico, mentre le norme, che rappresentano la via per raggiungerli, devono essere oggetto di una valutazione tecnica alla luce dei principi”.
Ecco, pare potersi dire che dal nome delle cose il mondo del diritto non può prescindere e che ogni valutazione tecnica altro non è che la considerazione della cosa per come essa è definita nel sistema.

Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 18/11/2023

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