Costume e SocietàLetteratura

Incontri al bar tra ricordi, rivalità e amori nascosti

Storie d’altri tempi

Di Francesco Cesare Strangio

«Allora vuol dire che il mondo ha preso a girare al rovescio e con ciò non mi meraviglierei se domani vedessi sorgere il sole da ponente» osservò, tagliente, mastro Filippo.
Mentre mastro Filippo disquisiva con Nicoletta, varcò la soglia del bar Luigi Palmisani; si era trasferito dalla città di Catanzaro al paese, dopo aver convolato a nozze con Antonietta Varacalli. Palmisani era alto oltre un metro e ottanta; aveva perso la sua prestanza fisica giacché era dimagrato tanto da sembrare più uno stoccafisso che un uomo. Sulla fronte gli era cresciuto un ciuffo di capelli bianchi che lo invecchiavano di oltre dieci anni; portava in volto il colorito dei morti a causa di un’ulcera perforante allo stomaco che lo stava portando alla fossa.
Era da tanto tempo che Palmisani non si faceva vedere in giro per il paese: fonti bene informate sostenevano che era caduto in profonda depressione.
Mastro Filippo, nel vederlo, si alzò e gli andò incontro per salutarlo.
Luigi gradì molto il gesto di mastro Filippo, tanto che disse: «Nel vedervi ho sentito il bisogno di entrare per salutarvi.»
«Grazie, Luigi. Ho sempre domandato di voi e nessuno mi ha saputo dare notizie. Vedervi mi riempie il cuore di gioia. Che cosa vi posso offrire?» disse, con parole garbate, mastro Filippo.
«Solo la vostra amicizia, per il resto sono a posto.»
Dopo i dovuti convenevoli, Palmisani salutò i presenti e riprese a passeggiare lungo la via centrale del paese.
Nel frattempo entrò nel bar un certo Massimo Esposito, avvocato di corporatura taurina, altezza prossima al metro e sessanta di pelle scura e la testa attaccata alle spalle: dava da pensare che forse la natura, distrattamente, si fosse dimenticata di mettere, fra testa e spalle, il collo. Portava gli occhiali da vista e con una certa frequenza li toglieva per massaggiarsi gli occhi.
Il dietro bancone era fatto di specchi e mensole di vetro, spesse quasi cinque millimetri, su cui poggiavano le bottiglie dei super alcolici. Tra una bottiglia e l’altra, rimaneva quel tanto di spazio che permetteva alle persone di vedere riflessa la propria immagine. L’avvocato, prima di rimettersi gli occhiali, guardò la sua immagine riflessa dallo specchio e storse il muso in senso di ripudio del proprio aspetto: assomigliava più a un procione che a un essere umano.
Terminata l’ispezione visiva, prendeva a tessere le proprie lodi: tutti lo ascoltavano divertiti, ma nessuno dava peso a quanto diceva.
Tra una frustrazione e l’altra, l’avvocato si era fissato di essere un principe del foro.
L’avvocato era solito usare un linguaggio gentile e vellutato, che poteva ingannare solo qualche sprovveduto ignaro della sua deriva mentale.
Nei suoi racconti di quando svolgeva la professione a Milano, una donna di nome Giuditta era al centro della sua narrazione, in quanto, al suo dire, si era perdutamente innamorata di lui.
Gli occhi dell’avvocato tradivano la sua tendenza ossessiva nel battere l’acqua nel mortaio con l’intento di apparire grande.
Mastro Filippo, seguito dal nipote, salutò i presenti e sparì, lasciando l’avvocato a dare sfogo alla propria follia.
Avviato il motore dell’auto, i due presero la via del cantiere.
Lungo la strada incrociarono i discepoli che facevano a gara con le biciclette. Il traguardo era il bar Carducci; il primo a tagliare il traguardo, vinceva una birra. In testa c’era Mezza Salma che pedalava in posizione piegata per penetrare l’aria e guadagnare velocità. Poco meno della distanza di una ruota c’erano Salvatore e Marco, mentre Cosimo quella sera arrancava.
«Che ore sono?». Domandò mastro Filippo al nipote che portava al polso un orologio Swatch da quattro soldi. 
Sul quadrante i numeri si vedevano a stento, dopo vari tentativi Rocco annunciò l’ora: «Sono le 19:50!»
«Ma vai affanculo… Se guardi meglio vedi che sono mezzanotte.»
«Scusa… non si vede bene.»
«Buttalo e vatti a comprare uno nuovo.»
«Dammi i soldi che lo vado a comprare subito.»
«Bastano diecimila?»
«Dammi venti, così vado sul sicuro.»
Mastro Filippo mise le mani al portafoglio e prese trentamila ₤ e li diede al nipote che scese dall’auto e andò a pochi metri dalla farmacia, dove c’era un negozio che vendeva orologi. Poco dopo si presentò con un altro Swatch di colore rosso.
«Che ore sono?».Domandò Mastro Filippo.
«Sono le 16:40». Rispose Rocco.I giovani avevano smesso di lavorare con dieci minuti di anticipo.
«Quando il gatto non c’è, i topi ballano!» osservò mastro Filippo.
Di quelle uscite da lavoro in anticipo, Rocco ne sapeva qualcosa.
Finita l’ispezione al cantiere, Rocco prese la moto e andò al bar di Domenico Tagliaferro. Patrizia era dietro al bancone impegnata a servire quattro pacchetti di sigarette Marlboro a un cliente di passaggio.
La maestrina aveva i capelli legati a coda di cavallo per attutire l’effetto del caldo; nel vederla Rocco ebbe il solito tonfo al cuore. Con il passare dei giorni l’amore tra i due crebbe; era del tutto naturale che toccasse a Rocco prendere l’iniziativa, rinviare non avrebbe giocato a suo favore.

Foto di form PxHere

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