Attualità

Refugee Olympic Team a Parigi 2024: per ché la vittoria dello sport è una sconfitta per l’umanità

Pensieri, parole, opere… e opinioni

Venerdì sera hanno preso il via i XXXII giochi Olimpici dell’era moderna che, per l’occasione, tornano a Parigi, capitale che li aveva ospitati per l’ultima volta esattamente 100 anni fa. Per quanto appassionato, non ho la pretesa di essere un esperto di nessuna delle 32 discipline olimpiche coinvolte, né ritengo questa la sede preposta a fare pindariche previsioni sugli atleti che potranno sorprenderci e regalarci emozioni. Allo stesso modo, pur arrogandomi il diritto di affermare che, fatta eccezione per l’emozionantissima sezione finale, la discussa cerimonia d’apertura non mi sia piaciuta, non intendo fare da cassa di risonanza alle critiche a dir poco ridicole che ho sentito in merito all’esaltazione della libertà d’espressione che vi ha trovato spazio all’interno, né intendo soffermarmi sull’accusa di strumentalizzazione dell’Ultima Cena di Leonardo da parte di certa politica che, ancora una volta, dimostra quanto sia vera la massima che a volte sarebbe meglio restare in silenzio e passare per stupidi piuttosto che parlare e togliere ogni dubbio. Sarebbe bastato infatti avere un pizzico di cultura cinematografica e televisiva, prima ancora che letteraria o artistica, per scoprire magicamente che l’affresco leonardiano è l’opera d’arte più citata al mondo e, spesso, con intenti ben più profani rispetto a quanto sia stato fatto sullo sponde della Senna. Ma, venendo al nodo dell’editoriale odierno, ciò di cui voglio parlare oggi in relazione alle Olimpiadi 2024 è il fenomeno del Refugee Olympic Team.
Quando si parla di spirito olimpico e di armonia, molti esperti e storici dello sport considerano questa delegazione come la massima espressione di questi valori. Creata dal Comitato Internazionale Olimpico nel 2015, la squadra è presente per la terza volta consecutiva ai Giochi Olimpici, con 37 atleti di diverse provenienze che gareggeranno in 12 sport. La delegazione rappresenta oltre 100 milioni di sfollati a livello globale e, assieme al Programma di Supporto agli atleti rifugiati, gestiti dalla Fondazione dei Rifugiati Olimpici, permette agli atleti rifugiati di competere ai Giochi sotto la bandiera dei cinque cerchi. Gli atleti sono stati selezionati attraverso un programma di assistenza sportiva nei campi profughi, finanziato dal programma di solidarietà olimpica del CIO e gestito dalla FRO.
Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha elogiato la delegazione per il suo esempio di resilienza e speranza, sottolineando come lo sport possa offrire sollievo e un senso di comunità. Anche se, come affermavamo poc’anzi, la squadra partecipa per la terza volta ai Giochi, Parigi 2024 vede la delegazione gareggiare per la prima volta sotto un proprio emblema come simbolo di unità e appartenenza.
Masomah Ali Zada, ciclista afghana e capo missione della delegazione dei rifugiati, ha evidenziato l’importanza dell’emblema nel creare un senso di appartenenza. Accolta in Francia dopo essere fuggita dall’Afghanistan, Ali Zada ha partecipato ai Giochi Olimpici di Tokyo 2020 e ora ispira una nuova generazione di atleti rifugiati.
La Fondazione, istituita nel 2017, continua a promuovere i benefici dello sport per le persone sfollate e ha permesso a quasi 400.000 giovani di accedere allo sport sicuro. Mira a costruire un movimento internazionale che utilizzi lo sport come strumento di supporto per i rifugiati e, è inutile sottolinearlo, è una di quelle nobili iniziative che solo il mondo dello sport è in grado di donare all’umanità. Ci dovrebbe far riflettere, piuttosto, come, in 128 anni di storia delle Olimpiadi dell’era moderna, non si fosse fino a oggi mai sentita l’esigenza di avere una rappresentanze dei rifugiati, e questo al netto di ben due conflitti mondiali durante i quali, comunque, i giochi non si sono mai formalmente fermati. Sarebbe facile giustificare la scelta sostenendo una maggiore sensibilità ai temi sociali sviluppatasi negli ultimi decenni ma, a mio modesto avviso, il problema risiede più che altro nella complicatissima situazione geopolitica internazionale, che ben giustifica le parole di Papa Francesco relative al combattimento di una guerra mondiale a pezzi. Avere una delegazione di rifugiati significa infatti che si fa sentire a livello internazionale il tema della guerra, delle persecuzioni sociali e politiche, della privazione dei diritti che impediscono a un atleta di sfoggiare orgogliosamente i colori del proprio Paese, di conquistare allori per la terra che gli ha dato i natali e di avere una casa in cui tornare dopo le due settimane di esaltazione olimpica. Una condizione sulla quale ognuno di noi, e soprattutto i rappresentanti politici internazionali, dovrebbe riflettere con grande attenzione, decisamente più e meglio di quanto non sia stato fatto sui discussi riferimenti artistici della cerimonia di apertura. Perché se la delegazione dei rifugiati alle Olimpiadi rappresenta la vittoria del mondo sportivo, è al contempo la più dolorosa delle sconfitte per la realtà sociale internazionale…

Jacopo Giuca

Nato a Novara in una buia e tempestosa notte del giugno del 1989, ha trascorso la sua infanzia in Piemonte sentendo di dover fare ritorno al meridione dei suoi avi. Laureatosi in filosofia e comunicazione, ha trovato l’occasione di lasciarsi il nord alle spalle quando ha conosciuto la sua compagna, di Locri, alla volta del quale sono partiti in una altra notte buia e tempestosa, questa volta di novembre, nel 2014. Qui ha declinato la sua preparazione nella carriera giornalistica ed è sempre qui che sogna di trascorrere la vecchiaia scrivendo libri al cospetto del mare.

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