Costume e SocietàLetteratura

Due destini, una notte: Rocco e Salvatore

Storie d’altri tempi

Di Francesco Cesare Strangio

«Chi è questa Patrizia?» domandò, sorpresa, la nonna a Rocco.
«È la figlia di Domenico Tagliaferro, il proprietario del bar tabacchi che sta sulla via provinciale dall’altra parte del paese.»
«Hai parlato con lei o è una delle tue tante fisime?»
«Quali fisime? Questa sera, quando ci siamo salutati, mi ha accarezzato il volto.»
«Volesse il Signore che fosse vero! Per me il tempo viene sempre più a mancare e tu non sai quanto sarei felice vederti sposato con una brava ragazza e un paio di figli a carico. Comunque, prima di prendere qualsiasi decisione, chiedi consiglio allo zio. Non dimenticare che per te ha fatto da zio e da padre. Ti volevo ricordare un’altra cosa: una volta sposato rispetta la famiglia che ti ha accolto, ma non tradire quella di provenienza. Sappi che tradiscono solo i miserabili. Ricorda per sempre questo precetto» finì la nonna.
Rocco andò nella sua stanza. Come sempre la nonna aveva sistemato tutto alla perfezione. Il letto aveva il lenzuolo e la sottile copertina piegati a formare un triangolo, lasciando il cuscino dalla federa azzurra bello in vista. Sul comodino vi era l’abat-jour e la lampadina era protetta da una leggera tendina a strisce di canna intrecciata su quattro astine di ferro colorato nero. La finestra, com’era solita fare, la nonna l’aveva lasciata mezza aperta per favorire il riciclo dell’aria fresca.
A differenza delle altre volte, Rocco non si guardò allo specchio dell’armadio a due ante posto ai piedi del letto. Prima di dormire rivisse mentalmente quanto era avvenuto quella sera. La carezza ricevuta da Patrizia gli era rimasta impressa come una marchiatura a fuoco. Non vedeva l’ora di rivederla per farle la dichiarazione d’amore e, una volta ricevuta la risposta positiva, gridarlo ai quattro venti. In Rocco stava per verificarsi un nuovo episodio esistenziale; una metamorfosi attraverso l’alterazione dell’io per dissoluzione dei suoi confini, una rinascita in nuove configurazioni cognitive.
Nello stesso tempo, Salvatore, anziché mettersi a letto, inforcò la bicicletta e incominciò a pedalare lungo la strada che portava al cascinale di sua cugina. Sentiva un bisogno irrefrenabile di andare a trovare l’uomo incatenato.
Quella notte, la luna era piena e splendeva nel cielo come se volesse facilitargli il cammino. La luce d’innaturale intensità proiettava a terra l’ombra della bici, riproducendo contorni indefiniti.
Quando arrivò a un paio di centinaia di metri dal cascinale, Salvatore nascose, dietro a un anfratto, la bicicletta e da lì in poi proseguì a piedi, badando di non fare rumore. Arrivato al cascinale, si accostò alla finestra che dava sulla strada e guardò dentro. La luce fioca di una candela, consumata a metà, permise di vedere cosa c’era nella stanza. A stento notò quattro letti ai lati con altrettanti materassi e un tavolo mezzo rotto messo al centro. Su uno dei quattro letti c’era un uomo coricato con le mani sotto la nuca che guardava le ombre sulla superficie della parete animate dalla fioca luce della candela.
L’uomo coricato era un certo Peppe soprannominato l’assassino. Abitava nella vicina frazione in una casa a poca distanza dalla strada provinciale.
Salvatore prese a camminare lungo lo stesso viottolo che due giorni prima aveva visto prendere ai sequestratori, con l’uomo con la catena al collo. Salvatore si era portato dietro una piccola torcia, nel caso in cui avesse avuto necessità quando si sarebbe trovato nel bosco.
I riflessi della luna ingigantivano gli alberi, fin quasi a raddoppiarli. Il bosco era cupo, sinistro, da raggelare il sangue. Salvatore non si scoraggiò; una forza invisibile lo attraeva verso l’ignoto.
Mentre camminava, si fermò un attimo a riflettere su quanto stesse facendo. Una voce, con insistenza martellante, gli suggeriva di tornarsene a casa e di lasciar perdere ogni cosa. D’altronde era un argomento che, al di là del pericolo a cui si esponeva, non lo riguardava da vicino e pertanto quello era un motivo in più per fare retromarcia.
Ogni volta che si poneva la domanda “chi, me la fa fare” e stava sul punto di recedere dalla volontà di sapere, la curiosità prendeva il sopravvento e lo spingeva ad andare avanti. Man mano che si addentrava, gli abituali abitanti del bosco facevano sentire la loro voce. A un tratto un fruscio di ali ruppe il silenzio della notte: era un gufo che subito dopo iniziò a bubolare, facendo rabbrividire Salvatore.
Fra tutti gli animali che popolavano il bosco, il gufo era quello che gli metteva più paura per l’aspetto spaventoso, ma anche perché la sua presenza era intesa come un presagio di morte. Salvatore rimase a lungo dominato dal dubbio se andare avanti o tornare indietro. Fece per ritornare sui suoi passi, ma il ricordo dell’uomo con la catena al collo gli fece riprendere il cammino verso l’obiettivo che si era prefissato.
Percorse con prudenza un centinaio di metri, lungo una stretta viuzza arginata dalle piante del sottobosco, quando sentì a poca distanza una voce provenire dalla sua destra.

Foto di form PxHere

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