Preti dalla Fuga da Troia alla Predica del Battista: viaggio di speranza, equilibrio e giustizia
Le riflessioni del centro studi
Di Domenico Bilotti – Docente di Diritto e Religioni ed Enti ecclesiastici, Enti non profit e attività culturali presso l’Università Magna Græcia di Catanzaro
In Fuga da Troia (1630) di Mattia Preti l’effetto dell’assedio finito nella sconfitta agisce contemporaneamente sulla soggettività e sulla spazialità. Le figure, nel massimo del loro moto, tuttavia, si saldano in un vortice che mulina fino a sfumare tutti i dettagli nella veridicità frenetica delle sagome. È l’effetto, appunto, della fuga dalle macerie. È la disperazione da cui, per eterogenesi dei fini, sorge la speranza del potere costituente: salvezza contro perdita di status. La storia riparte sempre altrove.
La Vanitas del 1656 è molto più posata, come se si cercasse di fotografare l’effetto a un momento topico. Peraltro, è straordinario compendio di cultura pittorica. Preti ha studiato la grande tradizione figurativa della personificazione, ma la proietta a una nuova sensibilità stilistica, anticipando pose e cromatismi che nella pittura italiana resteranno fino al Risorgimento e oltre.
Diversa è la questione della stasi ne Allegoria dell’aria (1660): lì la sospensione dell’attimo non è la catalogazione personificante, ma la contemplazione attributiva di una geometria raggiunta nell’equilibrio, e solo nell’equilibrio capace di inverarsi. Stando al diritto, quell’allegoria è la costituzione programmatica del benessere, è l’indicazione eudaimonica che giunge all’idealità del principio, attraverso la costruzione delle regole.
Non è però solo un Preti platonico, imbevuto di letteratura (e figura) tardo-cinquecentesca. È il Preti semmai che ha avidamente appreso la lezione di Caravaggio: l’irriducibile politicità (apocalittica, pulsante, materiale, vissuta) della poetica (a sua volta, un farsi più che un declamarsi). E lo dimostra benissimo Il rifiuto di Celestino (1657/1673), opera concettosa, studiata, impegnativa, quasi logorante. Il Celestino che rifiuta diventa il paradigma di quello che certo post-costituzionalismo radicale chiama oggi potere destituente: la destituzione di comando e giurisdizione, nella catena kelseniana della legittimità formale.
La Predica del Battista (1684) è così a decenni di distanza il compimento del viaggio: il ritorno alla lotta. La predica che smuove sobillando e sobilla smuovendo, non per frazionismo partitico, ma attraverso la vocazione superiore a un valore trasformativo di giustizia. Denudato tra toghe (e toni) rossi, il Battista non ha milizie dietro, ma il fervore (forse, ci par di dire) di un Giordano Bruno, la purezza straziata contro e prima della condanna iniqua. La teoria dell’effetto giuridico fa qui uno straordinario balzo in avanti: si mostra alla vita ancora prima dell’irrogazione. È una chiamata, a suo modo. È mutamento coscienziale che sta sul piano della vita nuda e cruda, non su ascisse e ordinate della presa del potere, attraverso le categorie weberiane della sua legittimazione. La fede in Preti ci richiama alla passione, insomma, più che al dogma: questo pati e pathos tuttavia non ci spinge all’afflizione. Ci porta ad altro: a dare forma all’effetto sulla carne impresso dal tormento dello spirito.
Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 18/11/2023