Attualità

La crisi della partecipazione elettorale e lo spettro di una nuova oligarchia

Pensieri, parole, opere… e opinioni

Da qualche giorno a questa parte rimugino sul commento, riportato qui sopra, che un nostro lettore ha voluto lasciare sotto la notizia della chiusura della campagna elettorale da parte di Forza Italia in Calabria.
Che in Italia si registri una disaffezione alla politica non serviva la scarsissima affluenza alle Elezioni Europee per confermarlo né tantomeno una campagna elettorale asfittica e disinteressata che, a modestissimo parere di chi scrive, ha finito per premiare i personaggi da social network più che i pochi che hanno cercato anche in questa occasione di fare vera politica.
Tuttavia, il commento del nostro lettore ritengo che denoti una crisi più profonda, che finisce non solo (e non tanto) per propinarci la solita tiritera che votare, a conti fatti, non serva a nulla, ma, anzi, che esercitare il diritto del voto sia dannoso, con buona pace di secoli di lotte sociali. Quello che ci propone il nostro lettore (al quale non attribuisco colpe, sia chiaro, ma piuttosto una forma di malessere così pervasivo da spingerlo a privarsi del suo diritto più importante) è un sillogismo in cui l’atto della votazione viene inteso come una forma di clientelismo, un obolo da corrispondere a una potentato non meglio identificato che intende continuare a pascersi della nostra idiozia lasciando che continuiamo a galleggiare nel percolato in cui i suoi predecessori ci hanno cacciato.
La disillusione del nostro è anzi tanto radicata da rifiutare concretamente l’idea del voto e anzi cercare di convincere chi è un po’ meno disilluso di lui di evitare di perdere tempo a farsi mettere un timbro sulla tessere elettorale che gli è stata recapitata a casa il giorno del suo 18º compleanno. È la negazione di un privilegio che stiamo ormai patologicamente dando per scontato, gettare nel water il sacrificio di chi ha masticato persecuzioni, torture e persino morte per fare sì che noi oggi potessimo decidere da chi farci rappresentare e di chi ancora oggi, in Paesi che ci illudiamo essere lontani, soffre perché non gli viene data la possibilità di compiere le sue scelte, mentre una casta di burocrati si autodetermina senza nemmeno preoccuparsi di quali siano i suoi bisogni.
Credo che il nostro lettore (e gli ahimè tanti che la pensano come lui) sia giunto a questa conclusione nella convinzione che la desertificazione delle urne possa trasformarsi nel gesto di protesta che, lasciando a bocca asciutta gli eligendi, toglierebbe loro finalmente quei privilegi che permetterebbero una distribuzione più equa delle risorse tra il mancato elettorato. Il problema, e basterebbe leggere un minimo di letteratura dispotica per riflettere sulla questione, è che non esercitare il diritto al voto condurrebbe invece a un ulteriore accentramento del potere tra chi ha saputo cogliere l’opportunità di trovarsi in posizione privilegiata, finendo nella migliore delle ipotesi con il costituire una sorta di nuova oligarchia che inesorabilmente e progressivamente toglierebbe diritti ai comuni mortali.
Cancellati con un colpo di spugna tutti i sacrifici dei nostri padri, potremmo tranquillamente mettere da parte i bei discorsi sulla Costituzione, sulle manifestazioni, persino sulle libertà di espressione e opinione. Andremmo incontro finalmente a quel mondo più semplice ed equo (per la povera gente) che aveva tratteggiato con timore il buon Aldous Huxley appena 92 anni fa.
Cercare di non muovere quel passo di troppo verso questo baratro significa dunque riprendere coscienza che le nostre libertà personali sono tutt’altro che scontate e che chi usufruisce di privilegi e stipendi d’oro dovrebbe farlo non perché ci concede un favore (come una senatrice ha lasciato intendere in un comunicato stampa che abbiamo pubblicato proprio questa mattina), ma perché sta portando avanti le istanze del nostro territorio, sta rappresentando i nostri problemi e li sta risolvendo a nostro nome, perché è stato messo lì per volontà di popolo per rappresentarci e migliorare la nostra condizione di vita.
Prego dunque in ginocchio chi oggi piange sulla bassissima percentuale di voti racimolata di farsi un esame di coscienza e comprendere le ragioni intrinseche di questa debacle. Di imparare nuovamente a rivolgersi con giuste parole a gente che, come il nostro lettore, ha deciso di non essere più elettore perché stanco di sentire sempre la solita tiritera e di vedere contrasti da tastiera sul nulla invece che confronti costruttivi sui programmi.
Mi rivolgo ai piccoli partiti perché so, invece, che chi oggi gongola è contento di aver ottenuto il massimo risultato con il minimo sforzo e continuerà pertanto a scarnificare sempre di più la campagna elettorale fregandosi le mani al pensiero che, di qui a qualchee anno, l’ignoranza unita alla disillusione gli permetteranno di ottenere veramente privilegi e stipendi d’oro anche senza “passare dal via” di una chiamata alle urne ogni cinque anni.

Foto di form PxHere

Jacopo Giuca

Nato a Novara in una buia e tempestosa notte del giugno del 1989, ha trascorso la sua infanzia in Piemonte sentendo di dover fare ritorno al meridione dei suoi avi. Laureatosi in filosofia e comunicazione, ha trovato l’occasione di lasciarsi il nord alle spalle quando ha conosciuto la sua compagna, di Locri, alla volta del quale sono partiti in una altra notte buia e tempestosa, questa volta di novembre, nel 2014. Qui ha declinato la sua preparazione nella carriera giornalistica ed è sempre qui che sogna di trascorrere la vecchiaia scrivendo libri al cospetto del mare.

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