Di Francesco Cesare Strangio
«A proposito, pare che se la faccia con l’ufficiale sanitario.»
«Così corre voce. D’altronde nel santuario della procreazione non deve andare paglia e fieno! D’altro canto quel mondo è suo e se la gestisce come meglio crede» con due parole Marco liquidò l’argomento.
Il bar Primavera era frequentato per lo più da intellettuali, politici, professionisti e qualche prostituta che badava bene a non farsi scoprire.
I due amici videro entrare un compagno comunista con l’Unità sotto l’ascella sinistra. Tenere il quotidiano in quel modo era tipico dei compagni che avevano fatto della lotta di classe la loro ragion d’essere.
Il compagno, una volta seduto al tavolino, aprì il giornale a pagina dieci, in cui veniva commentato il mandato di Leonid Breznev a Presidente del Presidio del Soviet Supremo dell’URSS.
Il compagno, in uno stato di estrema euforia, commentò: «Finalmente hanno mandato a casa quel rammollito di Krusciov. Stava per sovvertire i principi della lotta di classe atta a portare il mondo alla libertà e a essere governato dal popolo.»
Non finì di completare il suo discorso che nel bar entrò Enzo, soprannominato il fascista.
Enzo era un omone alto oltre un metro e ottanta con due spalle da scaricatore di porto e due braccia grosse quanto le cosce del compagno comunista, due polsi massicci alla cui estremità vi erano attaccate due mani che sembravano badili. Appena entrato, salutò tutti con un «Buona domenica!»
Enzo non poteva lasciare il territorio comunale poiché sorvegliato speciale; la sera, entro le ore 21 doveva rientrare a casa e rimanerci fino alle 8 del giorno successivo. Toccava alle forze dell’ordine verificare l’effettiva presenza in casa del sorvegliato; tutte le volte che si presentavano alla porta del fascista, bussavano con timoroso riguardo onde evitare di disturbarne il sonno. Se vedevano la luce accesa, i militi si rasserenavano; una volta entrati, si sedevano e prendevano un caffè con lui.
Correva voce che quando Enzo stava a Brescia fu sospettato di aver preso parte alla strage di Piazza Fontana.
Il compagno, nel vederlo, piegò il quotidiano e lo poggiò sulla sedia in modo che il fascista non lo potesse vedere. Nicoletta, con le sue labbra carnose, rimase ammirata dalle prestanze fisiche dell’uomo.
Enzo chiese alla donna una birra da mezzo litro e rimase appoggiato al bancone.
La maglietta a maniche corte metteva in bella mostra la massa muscolare. Il compagno rimase basito, non si mosse di un millimetro; conosceva Enzo come un fascista di Origine Controllata: suo padre, il 28 ottobre del 1922, aveva partecipato alla marcia su Roma. Mettersi contro Enzo significava guadagnarsi un biglietto di sola andata per l’altro mondo.
Ad avvalorare i timori del compagno Giuseppe, pochi mesi prima Enzo era stato protagonista di una rissa con due carabinieri.
Un giorno, mentre Enzo si trovava in piazza con quattro camerati, due carabinieri osarono chiedere i documenti ai quattro. Enzo li guardò dai piedi alla testa, poi disse: «Vi do un minuto per togliervi dai coglioni.»
I militi, nel ricevere una tale risposta, impugnarono le pistole d’ordinanza e si fecero consegnare i documenti; la cosa finì con la denuncia dei quattro per resistenza a pubblico ufficiale.
Al processo furono prosciolti poiché il reato non sussisteva. La sentenza lasciò capire di quale protezione godevano i camerati.
Una sera, mentre i due carabinieri svolgevano servizio di ronda per le vie del paese, i quattro fascisti gli tesero un agguato e, dopo averli ridotti ai minimi termini, li spogliarono e li lasciarono senza né armi né divise.
I due malcapitati finirono all’ospedale e, una volta dimessi, furono trasferiti in Sardegna.
L’accaduto non fu neppure riportato dai giornali, tutti sapevano e nessuno osava fiatare.
Finito il mezzo litro di birra, Enzo salutò e uscì. Il compagno attese un paio di minuti e riprese l’unità.
Marco, nel vedere Giuseppe riprendere il giornale, fece finta di guardare fuori ed esclamò: «Sta ritornando Enzo con altri tre camerati!»
Nel sentire le parole di Marco, il compagno nascose il giornale dietro alla panca, passò dalla cassa e fece cenno a Nicoletta che sarebbe ripassato dopo a pagare il conto.
Rapido come un fulmine, il compagno imboccò il portico e scomparve alla vista.
Il desiderio di Marco era di vedere entrare il fascista e spaccare la testa al compagno comunista. Non lo tollerava, perché andava con il giornale sotto il braccio, parlava sempre di lavoro mentre lui al Comune non faceva altro che leggere l’Unità senza mai muovere un dito.
A distanza di qualche minuto dalla frettolosa uscita dal bar del compagno Giuseppe, guadagnò l’ingresso l’ufficiale sanitario: la domenica era il suo giorno libero tranne che per i casi urgenti, tra i quali rientravano i bollori di Nicoletta.
I due avventori, per togliere dall’impaccio il medico e l’amante, se ne andarono in piazza a passeggiare.
A quell’ora era solito il passeggio delle nubili che cercavano marito.
Salvatore guardava con un certo interesse Antonietta Costanzo, figlia del negoziante delle calzature che aveva il negozio nella via centrale del paese.
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